di Francesco Floris e Daniele Bonecchi
Non si può certo contare nella proroga sine die del blocco dei licenziamenti causa Covid e i sindacati confederali lo sanno. Tant’è che si sono affrettati a chiedere di discutere con Draghi di quei 248 miliardi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da investire, per comprenderne il peso occupazionale. L’Istat sforna inesorabile le tendenze sull’occupazione, ma ogni mese i dati sembrano le asticelle degli shangai sparpagliati sul tappeto, sempre più confusi. A marzo è sceso il tasso di disoccupazione ed è salito quello di occupazione, ma il confronto annuo rivela che molte persone in più cercano lavoro e molte meno ne hanno uno. I dati Istat relativi al mercato del lavoro nello scorso mese di marzo sono a due facce. Ma se si volge lo sguardo alla situazione che c’era nello stesso mese del 2019 si possono agevolmente constatare i danni fatti dall’emergenza sanitaria, iniziata esattamente un anno fa. Nel marzo scorso il tasso di disoccupazione è sceso al 10,1%, con un calo di 0,1 punti rispetto al mese precedente. Il calo del numero di persone in cerca di lavoro (-19mila unità da febbraio) riguarda però solo gli uomini e gli over 25, mentre tra le donne (11,4%, +2%) e i giovani di 15-24 anni (33%, +1,1%) c’è un aumento dei disoccupati. Rispetto a marzo dello scorso anno, però, le persone in cerca di lavoro sono ben 652mila in più, pari al 35,4%. Stessa dinamica per l’occupazione, con 34mila occupati in più a marzo rispetto al mese precedente (+0,2%), mentre in confronto al 2020 gli occupati sono 565mila in meno, mentre rispetto al mese precedente l’esplodere della pandemia, febbraio 2020, sono quasi 900 mila in meno.
La carenza di competenze frena le assunzioni
Confindustria, ferocemente contraria alla proroga del blocco dei licenziamenti, lamenta però la scarsa preparazione al mondo del lavoro dei giovani. Secondo una ricerca del Centro studi di Confindustria, sono “introvabili 318mila diplomati pari al 28% degli ingressi previsti” al lavoro (sulla base di dati 2020). Le “difficoltà di reperire diplomati segnalate dalle imprese” sono per il 48% legate alla carenza di competenze e per il 43% alla carenza di offerta.
La carenza di competenze come difficoltà delle imprese ad assumere è più alta nel settore ‘turismo, enogastronomia e ospitalità’ (56,4%), poi anche per ‘elettronica e elettrotecnica’ (54,5%), ‘amministrazione, finanza, marketing’ (52,3%), ‘grafica e comunicazione’ (48,6%), ‘chimico, materiali e biotecnologie’ (43,7%). “Il sistema produttivo assume i diplomati di tipo professionalizzante”, la cui disponibilità “ha accompagnato il processo di industrializzazione della nostra economia dalla fase di ricostruzione del dopoguerra fino al miracolo economico ed al conseguente processo di convergenza dell’Italia rispetto alle principali economie avanzate”; è il tema dell’approfondimento del CsC che evidenzia: “La quota dei diplomati di tipo professionalizzante sul totale dei diplomati era il 60% negli anni Cinquanta ed ha toccato il punto massimo assoluto (77,5%) durante il boom economico degli anni Settanta”; quanto ad oggi, invece, si vede che la quota è ai minimi, appena sopra il 50%. E non è un caso se – pensando al PNRR – le organizzazioni sindacali invocano politiche attive, per garantire un futuro ai lavoratori.
Poi ci sono le dinamiche “qualitative” connesse in senso stretto alla pandemia e ai lockdown. Con quello che però, per qualcuno, è un cambio epocale. A fare impressione sono i dati relativi alla riconversione professionale: “In questo particolare periodo storico – dice a True-News Giuliana Zucchetti, Direttore Selezione e Servizio Italia di Humangest, una delle principali agenzie del lavoro in Italia del gruppo SGB da 260 milioni di fatturato annuo e 300mila iscritti in banca dati – analizzando i dati delle selezioni da noi gestite per conto delle aziende clienti Humangest, il 35% dei lavoratori provenienti dal mondo dell’HORECA, ristorazione e pubblici esercizi, riesce ad essere ricollocato per posizioni in ambito logistico”.
Lavoratori dall’HoReCa alla logistica
Un grande travaso fra commercio e logistica. I motivi? Il boom di e-commerce e consegne a domicilio. Con intere generazioni “scolarizzate” in maniera coatta ad internet che, giusto per fare un esempio, sono state fra le cause che hanno portato il traffico dati nei mesi più duri dei lockdown a superare tutti i giorni i 1000-1100 Gbps (un terabit al secondo) a qualsiasi ora del giorno. Vetta che nel 2019 non veniva raggiunta nemmeno in occasione delle principali partite di calcio trasmesse ad orari serali. Ancora: la crescita esponenziale fra i più, e anche meno, giovani delle applicazioni per la vendita di vestiti usati – soprattutto lungo l’asse Italia-Francia – con consegna nei punti di raccolta del quartiere dove si abita (un tabacchi, un supermercato, etc.). Dal lato consumatore si risparmiano soldi, si comprano vestiti di qualità a poco prezzo e non standardizzati e si dà una mano, apparentemente, anche all’ambiente: una forma di economia circolare. Dal lato logistico-distributivo questo significa un altro picco di domanda a discapito delle grandi catene del commercio. Ups – leader di traporto pacchi – ha già alzato il prezzo delle consegne da 0,9 euro a più di 4 euro per far fronte al boom. L’ex Supermercato24 nel 2020 ha assunto migliaia di operatori per far fronte alle richieste di consegna a domicilio della spesa dai supermercati. Intere filiere italiane della logistica si riorganizzano. A cominciare dal colosso statunitense TNT-FedEx, che vuole mettere in cantina i lavoratori in appalto con le cooperative e i consorzi (diventati troppo costosi), per aprirsi al “modello Amazon” dove almeno un 30% della manodopera è fatta da lavoratori interinali assunti in somministrazione. Dinamiche che cambiano anche il panorama delle città e della provincia: nell’hinterland di Milano è caccia ai mini hub ex industriali o artigianali dove impiantare la logistica. Lo stesso lungo la BreBeMi, l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano deserta che oggi assume una funzione legata allo spostamento di merci, più che di persone.
Un grande travaso che, secondo la fotografia scattata da Humangest, pesa per oltre un terzo dei lavoratori di commercio e pubblici esercizi. Non tutti ce la fanno però di fronte ai cambiamenti imposti dalla pandemia e dalle scelte politico-industriali. “Solamente il 10% di questa tipologia di lavoratori – chiude Giuliana Zucchetti – riesce invece ad essere ricollocato per ruoli in ambito commerciale, un ‘travaso’ in questo caso più difficile per via delle skills spesso non adeguate”.