Perché leggere questo articolo? La Chiesa è indicata dall’Uaar come un “fattore di costo” per la società italiana. Ma non solo alle spese sostenute per il mondo cattolico si limita il ruolo della Chiesa in Italia.
L’apertura dell’ennesimo contenzioso sull’Ici che il Vaticano e la Chiesa cattolica dovrebbero all’Italia ha portato alla riscoperta del dibattito sul “costo” della Chiesa stessa per lo Stato italiano. Tanto che l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar) ha provato a calcolare il costo annuo che gli enti pubblici sosterrebbero per le attività legate al culto cattolico in forma diretta o meno. Il calcolo viene, complessivamente, attorno ai 6,7 miliardi di euro.
I conti dell’Uaar alla Chiesa
La conta va ben oltre il tema dei presunti favoritismi di cui godrebbero strutture ricettizie cattoliche di vario tipo, dagli alberghi alle pensioni, in termini di esenzioni fiscali. L’Uaar prova a “mappare”, imputandoli come costo della Chiesa, una serie di voci di spesa. Arrivando alla conclusione che qualsiasi tipo di voce di costo legata a dinamiche religiose sia da imputare al costo del cattolicesimo per l’Italia. E che – è questo l’assunto implicito – eradicando la secolare istituzione dal nostro Paese e convertendo lo Stato al laicismo razionalista si avrebbe un risparmio in termini di fondi per attività e servizi. Ma sul metodo di calcolo di diverse voci di costo sussistono dubbi.
Partiamo dalla più controversa tra quelle indicate dall’Uaar: le esenzioni Imu, Ici, Tari che varrebbero complessivamente 620 milioni di euro. Ma l’Uaar ha ripreso qui la più alta di una serie di valutazioni prudenziali compiute da enti come l’Anci, che negli anni ha stimato tra 250 e 600 milioni i costi; unendovi gli effetti di inchieste giornalistiche legate principalmente agli immobili di proprietà della Santa Sede a Roma.
Otto per mille e religione, i conti dell’Uaar sulla Chiesa
Questa voce è comunque assai minore delle due indicate come più costose nel contributo pubblico alla Chiesa cattolica. Esse sono rispettivamente quella per l’otto per mille alla Chiesa da un lato e quella per finanziare l’insegnamento della religione nelle scuole dall’altro. Si arriva, per questi, rispettivamente a 1,1 miliardi e 1,25 miliardi di euro l’anno, coprendo complessivamente un terzo della spesa annua.
Qui imputare “alla Chiesa” questi costi è decisamente semplicistico. L’otto per mille non è una prerogativa del mondo cattolico: a decidere la destinazione di fondi che, è bene ricordare, sono dei cittadini perché provenienti dalle loro imposte. E’ una libera scelta dei contribuenti. E la distribuzione dell’otto per mille avviene proporzionalmente in base alle richieste di destinazione dei cittadini. Stupirsi del fatto che in un Paese di cultura e tradizione cattolica sia proprio la Chiesa di Roma a ricevere il maggior numero di contributi volontari dei cittadini è sicuramente singolare.
Per quanto riguarda l’insegnamento della religione nelle scuole, ricordiamo che è normato dalla nuova versione di Concordato del 1984. Concluso da Giovanni Paolo II per il Vaticano e dal laicissimo premier Bettino Craxi per l’Italia, esso è un trattato internazionale tra Stati sovrani. E l’insegnamento della religione non è affatto obbligatorio nelle scuole pubbliche italiane.
Il nodo scuole
In una voce che indica i contributi alle scuole private di stampo cattolico, poi, l’Uaar indica mezzo miliardo di euro di spese per lo Stato esplicitando di non fare distinzione tra voucher pubblici, finanziamenti di enti locali e donazioni ben più liberali. Tra queste i fondi per l’acquisto di libri di testo destinati alle famiglie meno abbienti, i contributi destinati alle borse di studio per studenti meritevoli e le spese per il monitoraggio infrastrutturale. Spese decisamente non riferibili a una qualche forma di “parassitismo” ecclesiale.
Insomma, la Chiesa può piacere o meno; e la legittimità di queste spese essere discussa sul piano politico. Ma ridurre un’istituzione dalla ramificazione storica e strutturata nella società italiana – avente il cuore pulsante a Roma e un ruolo civico e collettivo consolidato – a una voce di costo è un’operazione acrobatica. Capiamo l’importanza del tema dell’Ici e dell’Imu dovuta che lo Stato deve incassare, e il governo Meloni tramite il viceministro dell’Economia e delle Finanze Maurizio Leo ha già prospettato un’adesione alle richieste europee. Ma se si contano i “costi” della Chiesa allora si deve aprire un discorso sul valore sociale dell’istituzione per completezza di informazione.
Welfare e turismo, il ruolo della Chiesa cattolica
Partiamo dal valore economico più immediato: quello del turismo e dei pellegrinaggi diretto ai luoghi sacri. Secondo un’indagine dell’Isnart (Istituto Nazionale Ricerche Turistiche), il turismo religioso in Italia attira più di 5,6 milioni di visitatori all’anno. Di questi, 3,3 milioni sono turisti stranieri e 2,3 milioni di turisti nazionali. I clienti stranieri rappresentano circa il 60% di questo segmento. Viaggi e spese di cibo e attività culturali connesse alla sola frequenza dei luoghi religiosi in Italia erano stimati generare un valore di 500 milioni di euro per i cittadini italiani e 970 milioni per gli stranieri. Un totale, insomma, di quasi 1,5 miliardi di euro.
A questo bisogna aggiungere il valore sociale delle attività di welfare diretto o indiretto generato dalla Chiesa e dalle sua attività caritatevoli. Caritas, Acli, comunità cattoliche per indigenti, tossicodipendenti e senza tetto generano un’attività sociale complementare a quella dello Stato. Solo nel 2021 quasi 2.800 Centri di Ascolto Caritas hanno effettuato oltre 1,5 milioni di interventi, per poco meno di 15 milioni di euro. A questi va aggiunta la grande serie di aiuti per distribuire beni e servizi agli indigenti. Durante l’anno di esplosione della pandemia, il 2020, quella della Chiesa è stata una vera e propria “manovra” da mezzo miliardo di euro per aiutare i contesti di crisi in tutto il Paese.
Chiesa e diplomazia, il valore aggiunto
E non è stimabile economicamente l’effetto-leva in termini di proiezione diplomatica dello Stato per i legami col Vaticano, la copertura alla politica estera del Paese data dalla sinergia col Vaticano, la sponda in scenari di crisi come l’Africa, il contributo comune all’accoglienza dei migranti. Il peso geopolitico del Vaticano aumenta la proiezione dell’Italia, il ruolo di Roma come centrale diplomatica mondiale e addirittura la natura della lingua italiana come grande vernacolo globale, in quanto lingua franca per tutto l’apparato porporato del Vaticano e la sua rete di vescovi e associazioni sparsa per il mondo. Tutto questo non è un costo, è un valore. E prima di appiattire unicamente sul primo fattore il ruolo della Chiesa, esso andrebbe valutato a tutto campo. Pena il cadere vittima di pericolosi semplificazioni in nome dell’ideologia.