La guerra in Ucraina, l’inasprimento delle sanzioni contro la Russia e il conseguente allontanamento di Mosca dal blocco occidentale hanno generato un terremoto energetico globale. Chi, prima del 24 febbraio, acquistava gas e petrolio dal Cremlino è stato costretto ad individuare fornitori alternativi. Peccato che la fame di risorse sia enorme e che le alternative a disposizione dell’Europa siano pochissime. È in un contesto del genere che l’Italia, con quasi tre quarti dell’energia importata, risulta essere uno dei Paesi più dipendenti dall’estero. Roma deve prepararsi al peggio. Nel caso in cui dovesse rendersi necessario, quale piano attuare per reperire, in maniera alternativa, i circa 30 miliardi di metri cubi annui di gas russo?
La sicurezza energetica dell’Italia
Cassa depositi e prestiti (Cdp) ha realizzato un interessante report intitolato “Sicurezza energetica: quali prospettive oltre l’emergenza?”. Concentrate in appena nove paginette troviamo una sfilza di dati e statistiche che fotografa la situazione in cui si trova l’Italia sul fronte energetico. Dopo aver analizzato a fondo le ripercussioni energetiche del conflitto ucraino, in fondo al documento sono suggerite tre possibili strade da seguire.
C’è un primo punto che balza subito all’occhio. È vero che nel corso degli ultimi anni la dipendenza italiana dalle risorse naturali importate dall’estero è diminuita. Allo stesso tempo, è però altrettanto vero che Roma si trova ancora su un livello che rende vulnerabile la sua economia. Scossoni esterni, come il rovesciamento di uno dei governi fornitori o una guerra, possono – come in effetti è successo – alterare gli equilibri con pericolose ripercussioni economiche. Per quanto riguarda il gas naturale e il petrolio, queste due voci incidono per il 65% sui consumi finali di energia. Calcolatrice alla mano, l’Italia importa il 96% di gas naturale e ben oltre il 90% di petrolio.
Il peso del gas russo
Si da il caso, inoltre, che il gas naturale ricopra un peso rilevante all’interno del bilancio energetico italiano. Questo, in virtù dei circa 75 miliardi di metri cubi del 2021, rappresenta oltre i due quinti dei consumi interni di energia (42%) e circa la metà della generazione elettrica (48%). Se il 13% delle importazioni di gas arriva in Italia in forma liquida tramite navi da Qatar (70%), Algeria (14%) e Stati Uniti (8%), il gas tradizionale via gasdotto proveiene per lo più da Russia (40%) e Algeria (31%).
Considerando che nelle prossime settimane la Commissione europea darà alla luce una proposta per disporre il riempimento delle infrastrutture di stoccaggio sul territorio comunitario di almeno il 90% entro il primo ottobre di ogni anno, va da sè che l’Italia deve capire come muoversi. Nel report Cdp vengono individuate tre vie percorribili. La prima: sfruttare le capacità di stoccaggio nel brevissimo periodo. La seconda: potenziare le capacità di trasporto del TAP e incrementare l’utilizzo dei metanodotti in Nord Africa. La terza: rafforzare le capacità di rigassificazione così da rimodulare l’eventuale perdita di gas russo con il GNL nel breve e medio periodo.
Tre strade percorribili
Nel primo caso, si legge nel documento, si tratterebbe di riempire i siti di stoccaggio al 90%. In tal caso si potrebbe coprire circa il 20% dei consumi interni. “Se dovessimo portare oggi lo stoccaggio al 90% delle nostre possibilità, dovremmo acquistare circa 120TWh di gas. Ipotizzando di applicare il prezzo che attualmente si utilizza sui mercati, si potrebbe immaginare un costo pari a 12€/mld”, prosegue il report. C’è, poi, la strada che porta al potenziamento del TAP, le cui capacità potrebbero essere portate da 10 a 20 miliardi di metri cubi/anno, ovvero l’equivalente di circa due terzi del gas di importazione russa. Allo stesso tempo, si potrebbe incrementare l’effettivo utilizzo dei metanodotti esistenti che trasportano il gas dal Nord Africa.
Arriviamo all’ultima via che l’Italia potrebbe imboccare per sostituire il gas russo: rafforzare le capacità di rigassificazione. In questo caso occorre però considerare due aspetti. Bisognerebbe “portare a pieno regime l’impiego dei terminali esistenti, il cui utilizzo è pari a soltanto il 75% della loro capacità teorica, che coprirebbe circa il 20% del fabbisogno nazionale”. Dopo di che, si può provvedere alla realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione. “A questo proposito il Governo italiano ha incaricato i principali operatori del settore di individuare due navi Fsru (floating storage regasification unit) che possano fungere da terminali galleggianti con caratteristiche analoghe a quelle dell’OLT di Livorno”, prosegue l’analisi. In ogni caso, lo scenario che potrebbe delinearsi vede l’Italia in una posizione strategica rispetto al Mediterraneo e all’Europa. Un “adeguato dimensionamento delle infrastrutture”, infatti, “potrebbe rendere il nostro Paese l’hub di accesso per il gas naturale, e in prospettiva per l’idrogeno, a livello comunitario”.