Più precarietà non vuol dire più lavoro: negli ultimi dieci anni i contratti a tempo determinato sono infatti aumentati di oltre 800mila unità registrando un’impennata del +36,3%, mentre la variazione dell’occupazione complessiva è stata pari appena all’1,4%. E non solo: secondo il rapporto 2021 dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, anche la distribuzione funzionale del reddito ha mostrato un peggioramento persistente, come conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte del trend crescente, seppur debolmente, della produttività del lavoro.
Contratti a termine, tra flessibilità e precarietà
In Italia, dunque, flessibilità fa sempre più spesso rima con precarietà: e anche nella ripresa post covid la musica non sembra cambiare. Le imprese continuano infatti a scegliere preferibilmente contratti a termine, part time e di somministrazione: un dato che secondo Inapp mostra che in realtà i datori di lavoro non stanno scommettendo con convinzione sulla ripartenza dopo la crisi imposta dalla pandemia, durante la quale solo il blocco dei licenziamenti ha tutelato di fatto i lavoratori più fragili.
“I dati che abbiamo esposto nel recente rapporto Inapp mostrano che nel corso dell’ultimo decennio, invece di una significativa crescita dell’occupazione, si è avuta in Italia una sostanziale redistribuzione tra le diverse forme contrattuali del lavoro subordinato”, spiega a True News il presidente di Inapp, Sebastiano Fadda. “In particolare, l’incidenza del lavoro a termine sull’occupazione dipendente è passata dal 13,2% del 2008 al 16,9 del 2019. Se guardiamo a ciò che sta succedendo durante la ripresa post covid, vediamo che questa tendenza viene confermata: nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati con forme di contratto stabili sono diminuiti di 70 mila unità, mentre quelli precari (includendo tra questi anche i part time e i contratti in somministrazione) sono aumentati di 188mila unità. Questa esitazione degli imprenditori a stipulare contratti a tempo indeterminato può considerarsi rivelatrice di una scarsa fiducia nella stabilità della ripresa, che induce a tutelarsi ricorrendo a varie forme di lavoro precario”.
Contratti a termine, il presidente Inapp: “Distinguere il giudizio sulle base alle situazioni”
Le ragioni sono molteplici. “La percezione della fragilità della ripresa e l’incertezza sul futuro sono due degli elementi che inducono le imprese a optare per queste forme di utilizzazione temporanea della forza lavoro; ma assieme a questi si può ipotizzare l’incapacità di formulare piani industriali solidi di medio- lungo termine”, osserva Fadda, secondo cui “occorrerebbe regolamentare i rapporti di lavoro in modo da distinguere i casi in cui esistono cause specifiche che giustificano i contratti a termine dai casi in cui questi rappresentano forme generiche di precauzione contro le incertezze e i cambiamenti strutturali”. Per quest’ultima fattispecie, secondo il presidente dell’Inapp “la necessaria flessibilità andrebbe garantita in altro modo: attraverso ammortizzatori sociali e politiche di riqualificazione delle competenze e di ricollocazione, senza imporre condizioni di precarietà e scarsa tutela dei diritti dei lavoratori”. Senza contare che “un eccessivo turnover danneggia anche il sistema produttivo perché rallenta l’accumulazione di capitale cognitivo”.
Fine del blocco dei licenziamenti: cosa serve per ripartire?
Intanto, con la fine del blocco dei licenziamenti in gran parte dei settori produttivi si stanno moltiplicando i casi di imprese, specialmente multinazionali, che stanno lasciando a casa i dipendenti. Secondo il presidente dell’Inapp, però, non è possibile analizzare tutte le crisi aziendali allo stesso modo. “Per ripartire in maniera sensata è necessario incominciare con un’analisi della natura delle difficoltà delle imprese. Poiché le crisi aziendali non sono tutte uguali, ma hanno origini e natura diverse, bisogna adeguare gli strumenti di intervento alle specifiche caratteristiche della crisi. Se si tratta di semplice crisi di liquidità saranno necessarie misure di tipo finanziario; se si tratta di crisi dell’intero settore occorrerà attivare processi di riconversione, se si tratta di crisi di competitività bisognerà sostenere processi di incremento della produttività; se si tratta di crisi dovuta a calo della domanda aggregata sarà necessario alimentare quest’ultima, anche nella componente estera, e così via. Gli interventi cosiddetti ‘a pioggia’ sono i meno efficaci”.
“Serve rilanciare e potenziare i centri per l’impiego”
Secondo Fadda “è necessaria una politica industriale articolata sulla base di un’intelligente strategia di medio-lungo termine. Le politiche del lavoro devono affiancare questi processi integrandosi con le politiche industriali: ci sarà quindi bisogno di sostegni al reddito nei periodi di transizione, di formazione coerente con i nuovi fabbisogni di competenze, di meccanismi efficienti di sostegno alle transizioni occupazionali”. In particolare, per il presidente di Inapp “serve puntare sulla crescita economica e sulle politiche attive, specie con la formazione dei lavoratori che deve essere anche la base del reddito di cittadinanza. Bisogna fornire ai disoccupati non solo un sostegno economico ma soprattutto la possibilità di accrescere le proprie competenze. Come? Rilanciando e potenziando i centri per l’impiego, la cui azione è oggi fortemente carente. Pur essendo chiaro che non si può attribuire alle politiche attive e ai centri per l’impiego l’incombenza di ‘creare’ nuovi posti di lavoro, grava tuttavia su di essi il compito da un lato di favorire la copertura dei posti vacanti facilitando l’incontro tra domanda e offerta e dall’altro quello di favorire l’acquisizione delle nuove competenze richieste dall’evoluzione dei sistemi produttivi”.