La scossa delle proteste all’Havana, l’omicidio del presidente di Haiti, le barricate a Bogotà e i fermenti elettorali in Perù e Cile. A sud dell’Equatore si registra un’insolita estate bollente sul fronte politico, che rischia di sfociare in un “autunno caldo” per l’America Latina.
Cuba, manifestazioni contro il regime
Procediamo con ordine geografico. La notizia di manifestazioni anti-governative a Cuba ha colto di sorpresa la stampa internazionale che non poteva prevedere, a 30 anni di distanza, una grande mobilitazione di piazza contro il regime. Nel 1994 lo strascico del crollo del mondo comunista portò – per pochi giorni prima di venire repressi dai “battaglioni dell’ordine” – i cubani in strada; oggi è la “hambre”. I manifestanti scendono in piazza contro la fame, i black out, e un’economia che non accenna a riprendersi. La miseria, prima ancora delle rivendicazioni politiche e dei diritti. Il presidente Miguel Diaz-Canel, successore dei Castro, ha ripetuto il mantra che attribuisce tutti i problemi dell’isola al “bloqueo”, l’embargo statunitense che dura da 59 anni e che nel 2019 Trump ha rafforzato. L’embargo pesa, ma la crisi a detta degli esperti neutrali risente principalmente delle politiche accentratrici del Partito Comunista. Decine di migliaia di “cuentapropristi”, autonomi autorizzati dal governo a lavorare nel turismo -come tassisti, gestori di alloggi e ristoranti o guide- sono sul lastrico. Mentre l’Avana sbandierava al mondo il vaccino “Soberana” e la cosiddetta “diplomazia sanitaria”, la censura impedisce di sapere il reale impatto del Covid sull’isola.
Non si può prevedere quale esito avranno le manifestazioni, ma è chiaro che le piazze mostrano uno scollamento tra la popolazione e il regime. È ancora presto per dire se, dopo sessant’anni, sia arrivato il tramonto del castrismo.
Haiti, lo stato fallito con povertà e corruzione diffusa
Pochi chilometri a sud un’altra isola vive una situazione drammatica. Haiti è sempre più uno stato fallito, l’uccisione del presidente Jovenel Moise lo conferma. Nell’ultimo decennio in quello che è noto come “il paese più povero del mondo occidentale” si sono registrate catastrofi naturali, terremoti e uragani, e proteste diffuse contro povertà, corruzione e mancanza di servizi, alimentate da una grave recessione economica iniziata nel 2018. La violenza e l’insicurezza si sono solo amplificate da allora –come testimoniano gli oltre 300 rapimenti di quest’anno, tra cui quello di un italiano il mese scorso- e si fa largo lo spettro di una nuova stagione di violenze incontrollate.
Il Venezuela di Maduro, in piena crisi presidenziale, alle prese con un’economia in ginocchio
Legato a doppio filo con Cuba e Haiti è il destino di un altro paese disastrato dell’area, il Venezuela di Maduro. PetroCaribe è l’alleanza petrolifera creata nel 2005 da Caracas, allora sotto la guida di Hugo Chavez, per coinvolgere 17 stati dei Caraibi. Negli anni quello che avrebbe dovuto dare vita a un sistema alternativo al neoliberismo di Washington è stato al centro di numerose accuse di corruzione, su tutte quella che nel 2018 travolse proprio Jovenel Moise di Haiti, reo di essersi intascato i 2 miliardi di dollari destinati a programmi sociali ricevuti tramite il programma PetroCaribe. La chiusura dei rubinetti da parte di Caracas a partire dal 2015 – quando il calo del prezzo del petrolio ha finito di distruggere un’economia già in crisi- ha messo in crisi anche gli altri stati membri del programma. Il Venezuela è precipitato nel caos, secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 2019 il PIL del paese si è contratto del 35%e alla fine del 2020 il numero degli emigrati venezuelani era arrivato a sei milioni, quasi il 20 per cento della popolazione.
Dal gennaio del 2019 il paese vive una crisi presidenziale, con l’opposizione e la maggioranza dei paesi internazionali che riconoscono Juan Guaidò come presidente. In vista delle elezioni amministrative di novembre, Maduro – che nel frattempo è riuscito a rimanere in sella – si dice pronto a partecipare al dialogo con le opposizioni, ma a ha pagare lo scotto più duro è il paese, ormai prossimo al collasso e con episodi di violenza dilagante – qualche settimana fa Caracas è stata teatro di una guerriglia tra gang che ha causato 26 morti in poche ore.
Colombia, i focolai delle proteste non si spengono
La miccia è esplosa nel continente e l’incendio rischia di dilagare. In Colombia i focolai delle proteste bruciano da due mesi. A Bogotà e a Medellin ogni notte vanno in scena tafferugli tra giovani e la polizia. Il governo Duque ha archiviato il progetto di riforma delle pensioni, ma in cambio ha militarizzato le strade. A meno di un anno dalle presidenziali, i nodi della protesta rimangono sul tavolo, come il malcontento dei colombiani verso il modello economico che prevede salari molto bassi rispetto al costo della vita troppo alto nelle grandi città. La campagna elettorale per maggio 2022 è già di fatto iniziata e tutto lascia presagire che le manifestazioni continueranno.
Cile, un rebus presidenziali a programma a novembre
In Cile le piazze hanno portato al risultato storico del referendum costituzionale del 2020. Un anno dopo, rimangono enormi aspettative sui lavori dell’Assemblea Costituente che si è insediata ad inizio luglio. Il blocco di indigeni, indipendenti di sinistra e di estrema sinistra è in netta maggioranza, anche se non sempre potranno raggiungere il quorum di due terzi necessario per l’approvazione di ogni singolo articolo. A novembre si terranno le presidenziali, coi partiti di destra che partono sfavoriti ma tutto dipenderà dalla capacità di unione della sinistra e del centrosinistra, attualmente divisi. Bisognerà capire anche come si comporterà quel 60% di cileni che non sono andati a votare. Una situazione molto incerta: da un lato le piazze che hanno chiesto grandi cambiamenti, dall’altra un Cile silenzioso che sarà comunque chiamato a votare per approvare o meno, fra dodici mesi, la nuova Carta.
Pedro Castrillo, il politico nazionalista e statalista che emerge in Perù
Dal Perù sembra arrivare un segnale per una nuova leadership di sinistra che si affaccia in Sudamerica. Dopo un mese e mezzo di attesa, Pedro Castillo è stato finalmente proclamato presidente in Perù: l’ex maestro rurale e sindacalista di sinistra aveva sconfitto al ballottaggio Keiko Fujimori, figlia dell’ex presidente autoritario Alberto, con un margine risicatissimo – appena 44.000 voti su quasi 18 milioni di votanti – e contestatissimo (sono state presentate 270 denunce di brogli alla corte elettorale. Un outsider della sinistra radicale e rurale – una figura distante dai leader progressisti sudamericani degli ultimi anni, da Maduro a Lula ai Kirchner – diventa presidente del Perù. Bollato come “bolivariano” ed estremista dalla destra, il profilo politico di Castillo è meno chiaro di quanto lo si voglia far credere. In economia è considerato radicale, a favore di nazionalizzazione e interventismo statale. Nel campo dei diritti civili e laicità è un conservatore, contro aborto e matrimoni gay.
Argentina, la crisi economica continua a mordere
Anche in Argentina la crisi politica sembra irreversibile, neanche la vittoria della Copa America sembra migliorare la situazione. Pandemia, disoccupazione e povertà continuano a tenere alto il malcontento. A novembre le elezioni di metà mandato rischiano di essere una prova di vita o di morte per il governo di Alberto Fernandez, che spera di arrivare alle urne con la situazione sanitaria sotto controllo. Solo così il governo potrà superare indenne il mese di dicembre, quello in cui si concentrano tradizionalmente le proteste di piazza e le rivendicazioni di sindacati e movimenti sociali.
L’incognita Usa per l’America Latina
All’orizzonte si staglia poi il colosso Stati Uniti: dopo quattro anni di allontanamento trumpiano, come si comporterà Joe Biden nel tradizionale “giardino di casa” americano?