L’ultima tegola? L’inchiesta per insider trading, come raccontato da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera sabato 1 maggio, che ha messo nel mirino anche l’amministratore delegato di Diasorin, Carlo Rosa. Le cifre, anche se confermate, sono ridicole: poche migliaia di euro. C’è un altro elemento che non torna nell’inchiesta: le informazioni oggetto della “rivelazione” dell’ad di Diasorin erano già rese pubbliche da lui stesso intervistato da Andrea Cabrini il 10 marzo 2021 su Class Cnbc.
È stato un anno duro per la multinazionale della diagnostica di origine piemontese. I rapporti con la politica lombarda finiti nel mirino di magistrati e trasmissioni televisive. Il Tar Lombardia (poi smentito) che sospende la validità degli accordi presi sui sierologici costringendo Diasorin a sospendere tutte le proprie attività di ricerca in Italia realizzate in collaborazione con enti pubblici, come nel caso del San Matteo di Pavia. A un occhio poco attento sembra la tempesta perfetta. Non è così a guardare i numeri.
Tempesta perfetta? Non se si guardano i numeri…
Fatturato? 881,3 milioni di euro, con +24,8% nel 2020. Utile netto a 248,3 milioni, in aumento del 41,3%. Niente male l’anno della pandemia per Diasorin, che esce non solo illesa ma in apparenza rafforzata dal Covid. I veri crolli in borsa? Ci sono stati quando arrivavano notizie positive sull’approvazione o i test clinici dei vaccini, come è normale che sia. Se c’è “l’antidoto” (il vaccino) servono meno test per la diagnosi – è il ragionamento.
Si scopre ben presto che non è così: i vaccini approvati fino ad oggi non stimolano la memoria immunitaria. Il che significa che bisogna monitorare l’evoluzione degli anticorpi per capire la durata dell’efficacia della campagna vaccinale e, nel caso, ripeterla almeno su anziani e fragili. Chi ha la (una delle) soluzioni? Diasorin con i suoi test.
I procedimenti giudiziari? Una società che capitalizza 7,7 miliardi, con il 53% del fatturato negli Stati Uniti d’America può fare tranquillamente a meno di essere terrorizzata dai pm della Procura di Milano. Per Diasorin l’Italia pesa meno del 20% del fatturato, è investita da grandi fondi internazionali, e i mercati hanno letto le vicende giudiziarie più come questioni ascrivibili alla gestione politica della crisi di Regione Lombardia e all’organizzazione delle gare. I ribassi in borsa? Sono stati in linea con i titoli del settore che hanno reagito negativamente alle notizie sui vaccini.
Da Diasorin al settore della diagnostica molecolare
Dei nodi concreti però ci sono eccome che riguardano l’intera industria di settore. La diagnostica molecolare per il Covid ha inciso per circa il 30% del fatturato dello scorso anno. Lo ha fatto a discapito del rallentamento di tutte le altre attività non covid, a causa del difficile e a tratti impossibile accesso alle misure ospedaliere per gli esami di routine e per quelli straordinari. Nei fatti Diasorin ha perso 300 milioni di euro di fatturato da attività tradizionali, per ora largamente compensate dalle attività Covid. Non è un “pasto gratis”. Nel gergo di settore lo hanno chiamato effetto “Covid Cliff” che da qualche mese ha innescato una fortissima ondata di operazioni di fusione e acquisizione. Sia fra chi i test li produce sia fra chi ne fruisce come i laboratori di diagnosi. Con un trend di consolidamento fra i diversi player visibile nell’Unione Europea ma soprattutto in Usa. Negli Stati Uniti una manciata di grossi operatori nel settore dei laboratori di diagnostica si stanno comprando tutti quelli del territorio, anche i più dispersi.
L’obiettivo? Far sì che le varie catene abbiano un potere contrattuale più elevato nei confronti dei produttori di test, mantenendo però la capillarità geografica dopo che la pandemia ha svelato come la “medicina di territorio” e quindi anche la “diagnostica di territorio” sia una ricchezza. Non si compra una catena per fare solo economia di scala (magari con gli esuberi di lavoratori e la chiusura dei laboratori più piccoli e meno serviti) ma per essere presenti sul territorio acquisendo quote di mercato. In Italia? È notizia di questi giorni che il fondo svedese di private equity, EQT, è interessato a comprare oltre 300 laboratori della penisola, dopo aver acquistato un mese fa una grossa catena francese che controlla i laboratori visibili nelle nostre città con le insegne “Delta Medica” e “Fleming”. A vendere sarebbe la Investindustrial del finanziere Andrea Bonomi che controlla il network di laboratori della Lifebrain – 320 laboratori in 17 regioni per un fatturato di 180 milioni nel 2020 – che, per fare un esempio, controlla il Centro Diagnostico di San Babila in via Visconti di Modrone.
Punti diagnostici sempre più vicini al paziente
Dopo un anno di pandemia c’è chi mette sul piatto cifre importanti, con lo scopo di raggiungere la capillarità. Non solo si assiste al consolidamento della proprietà ma anche a una progressiva decentralizzazione dei punti diagnostici, sempre più vicini al paziente. È il cosiddetto approccio “point of care”. Dove l’economia di scala si fa sulle forniture, su macchinari e approvvigionamenti, sull’amministrazione e sulla infrastruttura informatica. Non su quantità del personale e strutture.
Avviene dentro a un mercato, quello della diagnostica, che vale 90 miliardi di dollari nel mondo con le prime 5 multinazionali che detengono il 51% del mercato. Le altre fette della torta se le dividono, a piccolissimi bocconi, tutti i restanti operatori. Come Diasorin. La morale? Chi non ha scala critica muore o viene mangiato, magari anche a buon prezzo. Deve essere per questo che nemmeno un mese la multinazionale italiana ha annunciato l’acquisto della società Luminex in America. L’accordo necessita di una serie di passaggi approvativi e dovrebbe diventare effettivo in estate. Ma la strategia è chiara: rafforzarsi per poter trattare da pari e arricchire la propria gamma di prodotti. Per esempio con la citometria a flusso, che serve a misurare il numero di cellule e identificare le dimensioni.
È la nuova frontiera della diagnostica riassumibile nel capitolo Life Science: biomarcatori tumorali; produrre sostanze che consentono, come delle cartine tornasole, di trovare agenti patogeni senza avere macchinari, il che significa poter effettuare l’analisi al di fuori delle strutture ospedaliere. O ancora: il nuovo mercato fatto di prodotti “lateral flow” con soluzioni diagnostiche pret-à-porter (la sindrome dell’intestino irritabile, un classico), con test pungidito di altissima qualità, sia covid che non covid. Una delle impressioni è che i produttori stiano quasi provando a disintermediare gli hub e i laboratori grazie all’innovazione e almeno su alcune patologie. Chi ne uscirà vincitore? Chi sconfitto? E a quale prezzo?