“È dappertutto, è il più attivo tra i fondi attivisti”. Jim Rossman, capo del settore Advisory di Lazard, non ha dubbi riguardo al più temibile dei suoi competitor. Il fondo Elliott è l’antesignano degli “activist investors”, fondi poco interessati al destino delle aziende o degli enti su cui investono denaro, che vedono semplicemente come un contenitore di ricchezza da scuotere per distribuire agli azionisti. L’obiettivo è – per stessa ammissione del fondo – “estrarre valore” dalle imprese allo scopo di “premiare” gli shareholders.
Fondo Elliott: estrarre valore, costi quel che costi
Una mission che è sempre rispettata, costi quel che costi. Da quando è stato fondato nel 1977 il fondo ha avuto un rendimento annuale medio del 13,5%, più della Borsa americana. Ci sono stati solo due anni in cui il fondo di Paul Singer non è andato bene: nel 1998, quando ha perso il 7%, e nel 2008, l’anno della tempesta subprime, con un calo limitato al 3% considerando la crisi finanziaria globale.
Chi è Paul Singer
La mente – a tratti senz’anima, ma con incredibile fiuto – dietro una delle più imponenti creature della finanza globale è il suo fondatore, Paul Elliott Singer, il finanziere newyorchese proprietario del fondo Elliott Asset Management. Un uomo che, come recita un articolo di Riccardo Barlaam per il Sole 24 Ore, “ha costruito la sua fortuna puntando sulle cause perse, che puntualmente vince”.
Le mire di Elliott sull’Italia: il Milan, Tim e Ansaldo
Dal 2016 il fondo ha messo gli occhi sul nostro paese. E dire che dietro le fortune dell’impero internazionale si cela un semi-sconosciuto tesoro italiano, costudito gelosamente nell’ufficio sulla 57esima strada a Manhattan: “Teoria dell’inflazione: studio sul deprezzamento monetario nella Germania del dopoguerra 1914-1923” dell’economista nostrano Costantino Bresciani Turroni. Un’autentica fonte d’ispirazione per il magnate americano che nel giro di due anni ha mosso le sue pedine su Ansaldo – scatenando una guerra senza quartiere con Hyundai – Tim e infine nel 2018 il Milan. Quando Elliott ha rilevato il club rossonero dalla fallimentare gestione di Yonghong Li (dopo avergli prestato i soldi in cambio delle azioni in pegno), si sono levati gli osanna di molti tifosi milanisti, forse dimentichi della storia delle società passate sotto la gestione del fondo.
Le speculazioni sui default
Creato nel 1977 dal newyorchese Paul Singer, nato nel 1944 da una modesta famiglia ebrea, in principio il fondo si concentra sull’acquisizione a prezzi di saldo di crediti deteriorati, per poi passare con cinismo alla riscossione. Ma il grande balzo in avanti arriva quando Elliott decide di speculare sul default di paesi in via di sviluppo. Inizia col Perù nel 1996. Lo stato sudamericano viene citato in causa negli States, vincendo clamorosamente. Ma la sconfitta in tribunale non frena Singer che promuove un’azione di lobby che fa rimuovere la “champetry law”, sul divieto di acquisizione di crediti al solo scopo di perseguire legalmente il debitore. La lunga battaglia legale e politica frutta al fondo 47 milioni di dollari.
Storia del Fondo Elliott: i casi Congo e Argentina
Dall’America Latina all’Africa Nera, il fondo colpisce ovunque. Così i 20 milioni investiti in Congo diventano 90 di entrate, dopo aver cavalcato uno scandalo di corruzione ad hoc che ha travolto il governo di Kinshasa.
Ma il vero machiavellico capolavoro di Elliott è il vulture fund, il “fondo avvoltoio” con cui spolpa il governo argentino, alle prese con la crisi del pesos nel 2001. Buenos Aires negozia con il Fondo Monetario la ristrutturazione lacrime e sangue del suo debito, a cui aderiscono il 93% dei creditori; in men che non si dica Singer acquisisce dagli “holdouts”, il 7% che non aveva aderito, il pacchetto dei crediti per iniziare un’interminabile controversia – non solo legale – con lo stato sudamericano. Comincia un attacco agli asset argentini in tutto il mondo. Nel 2012 il fondo arriva a far sequestrare una nave militare argentina in Ghana. Sull’orlo del default, l’Argentina accetta di pagare 2,4 miliardi di dollari per rientrare nei mercati internazionali da cui Elliott l’aveva di fatto bandita, maturando un guadagno del 2.000%.
Stati e aziende
Molti sono gli scalpi di CEO e proprietari di aziende. Klaus Kleinfeld, il boss di Arconic si arrende dopo un cedimento nervoso; stessa sorte per l’israeliano Shaul Elovitch, attivo nelle telecomunicazioni, dopo una lunghissima causa. Il Daily Mail pubblica le carte del processo di Jonathan Bush, CEO di Athenahealth, che stava resistendo in tribunale anche al fondo. La giapponese Hitachi è costretta a riacquistare a un prezzo esorbitante la quota minoritaria che il fondo deteneva nella nostra Ansaldo STS, pur di liquidarlo; così come i coreani di Hyundai hanno dovuto rinunciare a un piano di ristrutturazione che non avrebbe creato valore per gli azionisti. Agli ad di Compuware in America un uomo del fondo avvisò di essere a conoscenza di particolari della loro vita privata, compresa quella dei loro familiari: la società è stata venduta a una società di private equity poco dopo. Stesso copione per Novell, BMC, EMC. Agli amministratori di Athenahealth vengono invece mostrate le foto di un party organizzato per i dipendenti, a testimonianza della scarsa produttività aziendale.
Dati questi precedenti, è singolare che le iniziative del fondo Elliott in Italia (Tim e Milan, in particolare e sempre con Paolo Scaroni nel ruolo de “il nostro uomo a l’Havana”) non solo non abbiano destato preoccupazione, ma siano anzi state accolte quasi con entusiasmo. I fatti sono noti e quindi ci limiteremo a ricordarli in sintesi.
Ultima ma non ultima vicenda oscura legata a un’acquisizione ci riporta in Italia. Con l’appoggio di Cassa Depositi e Prestiti e del governo, che vuole evitare la “colonizzazione” francese del settore telecomunicazioni, Elliott vince la scalata, parziale, a Tim su Vivendi. Stati o privati, la carcassa non fa differenza per l’avvoltoio. Governi e squadre del cuore sono avvisate.