Un danno economico, un errore politico, un errore strategico: la scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici. Gli errori del Conte I non sono stati sanati dai giallorossi e dal governo Draghi, almeno fino ad ora. E da Ravenna un attento consigliere regionale avverte sugli effetti a cascata per l’economia nazionale.
Un Paese in bolletta
Al cavallo tra l’estate e l’inverno, tra settembre e ottobre del 2021, l’Italia è la nazione che ha sperimentato i maggiori aumenti nella spesa dei cittadini e delle imprese per le bollette energetiche, sulla scia della convergenza tra crisi dei rifornimenti e pressioni inflazionistiche. I dati di Energy Live, infatti, segnalano che Roma, già in testa alla classifica del costo in termini di euro per megawatt/ora nel mese di settembre, ha accelerato la sua spirale a ottobre, passando in meda da 158,59 €/MWh a 217,63 €/MWh (+37,22%), un aumento che batte quelli di Spagna (a ottobre 199,90 €/MWh, +28%), Francia (172,58 €/MWh, +27%) e Germania (139,59 €/MWh, +8,74%).
L’Italia alla canna del gas
La crisi dell’energia colpisce i cittadini, le imprese e i consumatori a più livelli in un Paese che è importatore netto di materie prime come il nostro: nel consumo privato, alla pompa di benzina, nelle filiere produttive dalla generazione al consumo finale, sulla scia delle tensioni finanziarie e borsistiche. Ed è a dir poco tafazziano il fatto che nel nostro Paese l’avvicinarsi di quello che potrebbe essere un inverno dello scontento sul fronte energetico vada di pari passo con la paralisi di ogni discussione sullo sfruttamento a pieno regime dell’energia che potrebbe essere il vero e proprio volano di una, almeno moderata, riduzione del fardello: il gas naturale.
Riserve di gas ai minimi già dallo scorso inverno
Martedì 30 novembre il prezzo del gas ha subito una nuova impennata: i future sul metano contrattati alla Borsa di Amsterdam, punto di riferimento per il gas europeo, hanno toccato un massimo di 101 euro. Come riporta Panorama, infatti, “l’’Europa nord-occidentale è stata colpita da ripetute ondate anomale di freddo. Di conseguenza, il volume di gas in stoccaggio nei 27 paesi dell’Unione europea e in Gran Bretagna è sceso dell’equivalente di 58 terawattora (TWh) rispetto all’inizio di ottobre, uno dei più grandi prelievi dell’ultimo decennio. Il problema è che le scorte di gas erano già ai minimi lo scorso inverno, con volumi al livello più basso dal 2013, secondo Gas Infrastructure Europe. E la situazione delle scorte non è migliorata nei mesi successivi”, creando un effetto-valanga che si è ripercosso sui prezzi.
Danni autoinferti con la ripresa della domanda
L’Italia, in questo contesto, è come un ciclista esposto al vento in discesa. Nel 2020, i consumi di gas naturale in Italia sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2019, per un totale di 70.651 milioni di metri cubi standard (Smc), rispetto ai 73.770 milioni di Smc dello scorso anno), ma se da un lato nel 2020 le importazioni totali sono state del 6,4% inferiori a quelle del 2019 (pari a 65.855 milioni di Smc, contro 70.356 milioni nel 2019), dall’altro la produzione nazionale è scesa del 15% circa (per un totale di 3.842 milioni di Smc). La ripresa della domanda nel 2021 e la crisi energetica hanno rimesso in campo la questione della necessità di sfruttare la generazione nazionale.
Il Pitesai ostacola lo sfruttamento dei giacimenti nazionali
Dal 2018, quando con il governo Conte I il Movimento Cinque Stelle e la Lega decretarono il rallentamento delle trivellazioni, il problema dell’estrazione nazionale, soprattutto offshore, è diventato annoso. Il Pitesai, «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee», il piano introdotto nel 2018 ufficialmente come piano regolatore delle trivelle è diventato nella realtà uno strumento per impedire in modo discreto lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. Nel gennaio 2019, in particolare, su iniziativa grillina i gialloverdi introdussero una norma che vincolava esplicitamente le ricerche di nuovi giacimenti all’approvazione del Pitesai. Essa sarebbe dovuto arrivare dopo 18 mesi, ma ancora non se ne sa nulla: l’ultima scadenza, dopo alcune proroghe, era fissata al 30 settembre ma il documento non risulta ancora approvato. Anzi, quel giorno prendeva le strade di un ennesimo giro per la Conferenza Stato-Regioni in attesa di essere ulteriormente affinato.
L’import costa dieci volte tanto
“Quello italiano”, nota Il Sole 24 Ore, “è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. È una stima indicativa, una media avicola trilussiana, citata da Marco Falcinelli segretario della Filctem Cgil e dall’economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ecco invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi: fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, più di 10 volte tanto”, con picchi nel quadro del gas naturale liquefatto importato da Paesi come il Qatar. Nel 2000 l’Italia, per fare un paragone con il presente, estraeva 17 miliardi di metri cubi l’anno principalmente in Adriatico, ove oggi la produzione è ridotta a 800 milioni di metri cubi. Nessun operatore si impegna a mettere un singolo euro sul gas italiano fino a non avere la certezza del via libera del Pitesai. Secondo Assorisorse bisognerebbe investire 322 milioni per raddoppiare a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno l’ormai stanca produzione, e un risultato di 10 miliardi di metri cubi l’anno, meno del 60% di inizio millennio, sarebbe ad oggi un trionfo e un toccasana per le tasche dei cittadini.
E in quest’ottica le ricadute economiche per le tasche dei cittadini si uniscono ai problemi per la crescita nazionale. L’energia pesa enormemente in negativo sulla bilancia commerciale italiano e solo nel 2019 ha comportato extra costi per 40 miliardi di euro. E in questo contesto l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione, dunque dell’attività operativa che contribuisce a generare flussi di cassa per lo Stato italiano.
La necessità di un cambio di passo: il gas italiano come chiave di volta per la transizione energetica
“Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000”, ovvero da meno di 6,2 a 15,5 milioni di metri cubi al giorno, ha dichiarato a Pandora Gianni Bessi. Consigliere regionale del PD in Emilia-Romagna e analista geopolitico esperto in questioni energetiche, Bessi è da tempo in prima linea per difendere la produzione energetica nazionale sia in un’ottica di rilevanza strategica degli asset italiani sia nella consapevolezza che il gas italiano sia la chiave di volta per abilitare la transizione energetica. Destinata ad essere castrata, piuttosto che aiutata, dalle politiche ideologiche dei gialloverdi.
L’equazione di Mattei: l’energia nazionale è energia a buon mercato
Per Bessi “si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre cinquant’anni”, e che includendo anche l’entroterra richiama all’epoca eroica dell’energia italiana, quella di Enrico Mattei. L’equazione che animava l’azione di Mattei vale ancora oggi: energia nazionale significa energia a buon mercato; energia a buon mercato significa sviluppo e sicurezza economica per i cittadini; sviluppo e sicurezza economica contribuiscono alla sicurezza nazionale.
“Inoltre”, come ha fatto notare Bessi, l’attività “italiana” di Eni e degli altri player energetici non si limita alla mera estrazione ma “coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna”, città natale del consigliere e capitale dell’energia italiana, “è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità”.
Quell’occupazione di qualità che, aggiungiamo noi, serve come l’aria al Paese per lo sviluppo post-pandemico. Lasciare l’Italia alla canna del gas non è solo un errore politico, ma anche un potenziale suicidio economico che non aiuta affatto a conseguire alcun vantaggio per l’ambiente. E dal Conte I a Draghi ben poco, di fatto, sembra essere cambiato: in tempi di crisi energetica tutto questo dovrebbe ricordarci che la prima transizione di cui necessitiamo è quella verso il buon senso economico.