Perché questo articolo potrebbe interessarti? La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha sancito sull’ex Ilva un principio cardine: “La salute prioritaria rispetto alla produzione”. D’accordo i sindacati, i quali però adesso chiedono certezza sui futuri piani industriali del governo. Ma l’impressione è che il rischio di una chiusura per Taranto è sempre più dietro l’angolo.
La vera notizia arrivata sull’ex Ilva di Taranto negli ultimi giorni è che, da parte europea, è stata accertata la possibilità di una chiusura dell’impianto. E questo per ragioni legate all’impatto ambientale. A metterlo nero su bianco, in particolare, è stata la Corte di Giustizia Europea la cui sentenza ha ribadito un concetto in grado di fare scuola anche per la giurisprudenza futura: il diritto alla salute del cittadino è da considerare prioritario rispetto alle ragioni di produzione e fatturato.
Perché anche dai sindacati è arrivato un plauso alla sentenza Ue
In parole povere, da oggi l’impianto ex Ilva, un tempo il primo in Italia e il secondo in Europa per la produzione dell’acciaio, può chiudere da un momento all’altro. I giudici della corte con sede in Lussemburgo non hanno dubbi: lo stabilimento inquina, è causa di malesseri e malattie nella popolazione, dunque il governo italiano può apporre i sigilli anche domani.
Una novità che, a primo impatto, sembrerebbe andare contro le politiche chieste in questi anni dai sindacati. Da più di un decennio, da quando cioè sull’ex Ilva di Taranto hanno iniziato ad addensarsi gli spettri di un ridimensionamento o di una chiusura, i sindacalisti hanno costantemente lavorato per la salvaguardia dei posti di lavoro.
In realtà, come dichiarato dal segretario nazionale della Uilm, Rocco Palombella, la sentenza Ue va nella giusta direzione: “La sentenza va nella giusta direzione – si legge in una nota di Palombella – quella che indichiamo da tempo per salvaguardare la salute dei cittadini e dei lavoratori di Taranto: la valutazione dell’impatto sanitario nelle autorizzazioni per la produzione di acciaio”.
Il principio espresso dal sindacalista della Uilm è semplice: non solo è possibile, ma appare categorico coniugare la salvaguardia della salute con quella dei posti di lavoro. La sentenza arrivata dal Lussemburgo dunque, dovrebbe servire come sprono alle parti in causa per mettere in campo i piani industriali che prevedano, al loro interno, anche investimenti sulla sicurezza ambientale.
I progetti in alto mare sul post Ilva
Ma è proprio su questo punto che arrivano le note dolenti. Esisterebbe, sempre secondo Palombella, un piano ambientale ma attualmente non sembrerebbe essere tra le priorità di chi sta operando in capo alla società: “Dobbiamo rilevare come oggi siamo in una situazione differente e paradossale – si legge nelle affermazioni del leader nazionale della Uilm – da una parte abbiamo un piano ambientale quasi ultimato e dall’altra abbiamo uno stabilimento quasi fermo, con una produzione al lumicino, migliaia di lavoratori in cassa integrazione, con più persone a casa che in fabbrica, e l’assenza di un piano industriale e di rilancio”.
Non ci sarebbe dunque alcuna decisione sulla strada da intraprendere. Al contrario, al momento la valutazione è unicamente sugli ammortizzatori sociali da mettere in campo per i lavoratori. In particolare, sempre secondo Palombella, l’unica proposta concreta messa sul tavolo riguarda l’aumento della cassa integrazione per 5.200 lavoratori.
Una soglia che, come fanno notare a True-news.it alcune fonti interne al sindacato, è anche psicologica: “Mettere in cassa integrazione più di cinquemila persone – dicono – vuol dire mandare a casa oltre la metà degli impiegati della società che controlla l’ex Ilva”. Vuol dire cioè dare l’impressione di non voler intervenire, nel lungo periodo, sull’impianto.
Chi dovrebbe prendere le decisioni
Chi sta gestendo Taranto in questa fase? Non è una domanda dalla risposta scontata, visti tutti i passaggi di proprietà degli ultimi anni. Lo stabilimento è del gruppo Acciaierie d’Italia, società nata nel 2021 dopo il fallimento del piano voluto dall’allora ministro Luigi Di Maio nel 2018 il quale, tra le altre cose, ha previsto l’acquisto dell’impianto da parte della multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal. Dentro la nuova società sorta tre anni fa, così come concordato dall’allora governo Draghi, lo Stato è entrato con il 38% delle quote, mentre la restante parte è rimasta ad Arcelor Mittal.
Tuttavia, l’assenza di investimenti da parte dell’attore privato e la costante diminuzione della produzione, hanno messo in allarme l’attuale esecutivo. Si è arrivati a una nuova svolta societaria a inizio anno, quando il ministro Adolfo Urso ha firmato il commissariamento di Acciaierie d’Italia e l’uscita di scena della multinazionale.
C’è quindi un commissario, individuato a febbraio nella persona di Giancarlo Quaranta, il quale però deve affrontare una situazione sempre più disperata. Da un lato la necessità di far quadrato sull’impianto, dall’altro la pressione esercitata dal problema ambientale resa ancora più forte dalla sentenza della corte europea.
E adesso che succede all’ex Ilva?
“Vuole sapere qual è l’unica cosa in cantiere – fanno notare fonti sindacali – è una convocazione per il 2 luglio alla sede del ministero del lavoro”. Ma lì, stando almeno ai punti all’ordine del giorno resi noti ai dirigenti dei principali sindacati e degli altri invitati, non si discuterà di piani industriali e di rilancio. Al contrario, verrà preso in esame l’allungamento della cassa integrazione per i 5.200 dipendenti di Acciaierie d’Italia.
Eppure incombono le scadenze, non solo e non tanto quelle dettate dal calendario quanto, fatto ancora più importante, quelle dettate dal ciclo di vita dell’impianto. Senza manutenzione, senza investimenti e senza una precisa programmazione, lo stabilimento rischia di chiudere e più il tempo passa e più lo spettro dello spegnimento dei forni si avvicina.
La strada, indicata da più parti anche al di fuori del mondo sindacale, è quella della decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto. Altrimenti, come dichiarato nei mesi scorsi su True-news.it dall’esponente di Legambiente Maria Maranò, si rischia una doppia bomba: quella ambientale e quella sociale.