Cosa impedisce all’Italia di estrarre il gas nel proprio territorio e di utilizzarlo come alternativa a quello fornito dalla Russia? La chiave per rispondere a questa domanda si trova nel PITESAI, il Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee, approvato l’11 febbraio scorso dal ministero della Transizione ecologica. Criticato da Ong ed enti locali perché troppo permissivo e poco organico – da altre fonti perché troppo restrittivo – il piano traccia una vera e propria mappa dei luoghi in cui si potrà cercare ed estrarre il gas in Italia.
Nuove esplorazioni: cosa dice il PITESAI
Dal punto di vista legislativo, il PITESAI pone fine di fatto alla moratoria varata nel 2019 dal governo Conte I. Il PITESAI sospendeva le attività di trivellazione con l’obiettivo di elaborare un piano – appunto- ed esplorare una strategia alternativa. Per dirla in estrema sintesi: il piano individua nuove aree idonee per le operazioni prospezione, esplorazione e ricerca di idrocarburi a terra e in mare, e regolamenta le estrazioni già in essere.
Gas: dove si trovano i giacimenti italiani
Dal punto di vista geografico, stando a quanto rileva lo stesso PITESAI, i principali giacimenti di gas in Italia si trovano nel Mar Adriatico. Davanti alle coste dell’Emilia Romagna, delle Marche, dell’Abruzzo e del Molise. Molto promettenti, secondo le stime, sono anche i giacimenti denominati “Cassiopea” e “Argo”, che si trovano nel Canale di Sicilia. Nel Mar Ionio e a nord-ovest della Sardegna si trovano altre riserve di metano, non conteggiate fino a una decina d’anni fa. Quanto “frutterebbe” in termini di gas la possibilità di utilizzare a pieno questi giacimenti? Secondo le stime del Ministero dello Sviluppo economico, nel sottosuolo italiano ci sono circa 350 miliardi di metri cubi di gas naturale. Si potrebbe ottenere un’estrazione di 10 miliardi di metri cubi all’anno (nel 2021 abbiamo consumato 76,1 miliardi di metri cubi, sempre stando al MiSe).
Dove si estrae attualmente
Ai giacimenti, esplorati e sfruttati parzialmente o per nulla, si aggiungono le attività estrattive già in essere. Secondo i dati del PITESAI, in Italia ci sono 1.298 pozzi di gas naturale produttivi. Di questi solo 514 “eroganti”, 750 “non eroganti” e altri 35 che hanno funzione manutentiva. La regione con più pozzi produttivi ed eroganti è ancora una volta l’Emilia Romagna, con 187 installazioni tra mare e terraferma; segue la Toscana con 45, la Sicilia con 44, Molise con 15, la Puglia e le Marche con 12, la Lombardia con 8, la Calabria con 7, la Basilicata con 6, e l’Abruzzo con 1.
Via a nuove operazioni di ricerca
Dal Punto di vista operativo, il PITESAI consente che in 15 regioni si possa dare il via a nuove trivellazioni in mare e a terra. Ma riduce al contempo l’estensione dell’area di estrazione (al 42,5% della terraferma e al 5% della superficie marina). Non vengono posti limiti temporali alle concessioni esistenti e inoltre vengono escluse dalle operazioni aree in cui ormai è appurato che gas di non ce n’è. Come ad esempio Liguria e Toscana (fatte salve ovviamente le concessioni in essere).
Le critiche delle Ong
Ong come Greenpeace e osservatori esterni hanno aspramente criticato il documento, che richiede certamente il rispetto di criteri ambientali, sociali ed economici “definiti sulla base delle caratteristiche territoriali e ambientali delle aree di studio” e legate a “vincoli normativi, regimi di protezione e di tutela a vario titolo e di particolari sensibilità/vulnerabilità alle attività”, ma solo “ove applicabile, dinamici e adattativi” e costantemente aggiornati. Quest’ultima dicitura, sostengono i critici, presta il fianco a molteplici interpretazioni. Altra fonte di critica è il fatto che il piano dichiara l’intenzione di favorire politiche di de-carbonizzazione. Ma allo stesso tempo apre a operazioni di lungo periodo – come sono quelle legate al gas – per la ricerca di un altro combustibile fossile.
Al via i lavori, ma arrivano anche i ricorsi
A livello locale, “l’effetto PITESAI” non ha tardato a farsi sentire. A marzo il governo della regione Sicilia, guidato da Nello Musumeci, ha dato via libera alla realizzazione dell’impianto di gas nel Canale di Sicilia, davanti la costa di Gela (Caltanissetta). L’obiettivo, da realizzare con il sostegno del MiTe e di Eni, è quello di favorire lo sviluppo dei campi gasiferi Argo e Cassiopea. “La strada verso l’autonomia energetica dell’Italia assegna alla nostra Isola un ruolo strategico”, dichiarava Musumeci.
Al contrario, 24 comuni di cinque diverse regioni – Abruzzo, Basilicata, Campania, Sicilia e Piemonte – hanno presentato ricorso al Tar contro il PITESAI, chiedendone l’annullamento. I municipi, alcuni dei quali si sono avvalsi della consulenza dell’avvocato “no-triv” Enzo Di Salvatore, adducono motivazioni di ordine temporale – il documento doveva essere approvato entro il 30 settembre del 2021, secondo i piani del Conte I – ma anche contenutistico. Atella, Baragiano, Barile, Lavello, Maschito, Montemilone, Rionero in Vulture, Ripacandida e Venosa: questi i nomi dei comuni della sola regione Basilicata che hanno presentato il ricorso, curato dall’avvocato Paolo Colasante.
Il gas italiano può ridurre la dipendenza da Mosca e abbassare le bollette?
Restano dubbi, infine, sulle reali possibilità di usufruire del gas italiano nel breve termine, per smorzare anche in parte la dipendenza dalla Russia. Davide Tabarelli, della società di consulenza Nomisma, ha definito il Pitesai “un mostro contro la politica energetica”. Dal momento che servirebbero “anni, se non decenni” per aumentare la produzione nel nostro Paese. Secondo il think tank Ecco, specializzato sul cambiamento climatico, anche il fatto di risparmiare usando gas italiano rispetto a quello importato non è un assunto così solido.
“Il gas è una materia prima omogenea. Che sia importato o estratto localmente, viene comunque immesso nella stessa rete e scambiato in mercati organizzati come prodotto indistinto a un prezzo che è influenzato solo dal rapporto tra offerta complessiva e domanda della macroregione di riferimento”, spiega l’osservatorio. E aggiunge: “Espandere la produzione di gas fossile italiano non avrebbe alcun impatto rilevante nel prezzo di mercato del gas e quindi per le bollette di imprese e consumatori“.