Perché leggere questo articolo? Attraverso il Superbonus Giorgetti attacca le banche. Anche a ragione, ma è un suicidio in un sistema banco-centrico come il nostro
Ho combattute le banche, le banche hanno vinto. Si potrebbe parafrasare la canzone dei The Clash, I Fought the Law, the Law Won, per rileggere lo scontro tra il ministro Giorgetti e le banche, in questi giorni di emendamenti al Superbonus. Ogniqualvolta un governo intenta un provvedimento sulle banche – magari anche a ragione, magari neanche avverso ma semplicemente ragionevolmente volto a far sì che gli enti restituiscano una briciola dei crediti ottenuti, o a regolamentarne il sistema – ecco che quell’iniziativa finisce inesorabilmente respinta. E con perdite. Superbonus, extra-profitti o fondazioni: la politica aveva ragione, ma le banche hanno vinto.
La guerra santa e suicida di Giorgetti contro le banche
Venerdì sera il governo ha presentato alla Commissione Finanze del Senato un emendamento a un decreto-legge sul cosiddetto Superbonus. Era un emendamento molto atteso e di cui il governo parlava da tempo, ma con una certa confusione sui dettagli che aveva agitato molto i costruttori edili e le banche, tra i beneficiari della misura, e anche alcuni esponenti politici di Forza Italia, partito membro della maggioranza di governo. Negli ultimi giorni il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva fatto intendere che la modifica avrebbe riguardato tutti i crediti in circolazione, anche quelli degli anni passati: si pensava cioè che la nuova regola sarebbe stata retroattiva, e che avrebbe quindi scombinato tutti i piani di investimento di banche e imprese, che avevano iniziato a protestare.
L’emendamento modifica l’arco di tempo entro il quale è possibile usufruire della detrazione sulle imposte che cittadini e aziende hanno maturato facendo i lavori di ristrutturazione: sarà allungato a 10 anni, il doppio rispetto agli attuali cinque, per tutti i lavori eseguiti dal 2024 in poi. L’obiettivo della misura è diluire su più anni il costo del Superbonus per lo Stato, riducendo i mancati incassi annuali: per questa ragione sui giornali se ne parla come emendamento “spalmacrediti”. Un provvedimento su cui Giorgetti ha anche ragione, ma che si tramuterà in un suicidio politico. Come accaduto con gli extra-profitti delle banche.
Che fine hanno fatto gli extra-profitti delle banche di Giorgetti?
Vi ricordate la “guerra santa” intentata da Meloni e Giorgetti sugli extra-profitti delle banche? Ecco, “non l’ha pagata nessuno”. Parola proprio di Giorgetti. Nel recente Question Time alla Camera, il ministro dell’Economia ha ammesso il flop: “Al momento non risultano essere pervenuti versamenti, esattamente come previsto dalla relazione tecnica“. Subito dopo il varo nel 2023 della tassa sugli extraprofitti delle banche il governo sosteneva che sarebbero entrati 2-3 miliardi dagli istituti di credito. La premier parlava di profitti “ingiusti”, frutto di “rendite di posizione”.
L’imposta, pari al 40% avrebbe dovuto essere calcolata in parte sulla differenza tra interessi passivi e attivi tra il 2021 e il 2022, con una franchigia del 3%. L’altra parte si sarebbe dovuta calcolare sull’eccedenza del 6% maturata tra 2021 e 2023. Avrebbe dovuto essere versata entro il 30 giugno 2024. Poi, a settembre, dopo le critiche della Bce e della Banca d’Italia, Giorgetti e Meloni hanno dovuto fare dietrofront. E con un emendamento aveva permesso agli istituti di mettere i soldi a riserva invece di darli allo Stato. Una battaglia giusta, ma perduta. E’ il sistema a impedirla.
L’Italia, un sistema “bancocentrico”
L’Italia, Giorgetti dovrebbe saperlo, è un sistema “bancocentrico” per antonomasia. Questo significa che il debito delle imprese è concentrato quasi esclusivamente nelle banche. Bisognerebbe introdurre innovazioni nella legislazione fiscale che consenta al mercato dei capitali non bancario di svilupparsi. Il modello “mercatocentrico” anglosassone prevede banche maggiormente incentrate sul mercato, generano gran parte dei profitti da attività di trading e investment banking.
In Italia le banche rimangono concentrate sul business depositi/impieghi e, per chi meritoriamente ce la fa, in parte sempre maggiore sul risparmio gestito. Nel nostro Paese la maggior parte dei finanziamenti passa dal mondo bancario. Soprattutto in periodi di instabilità o successivi a una crisi, un mercato bancocentrico rende più difficoltosa la ripresa dell’economia. Ma non si possono toccare, come ha fatto anche a ragione Giorgetti, altrimenti il castello rischia di venire giù.
Le fondazioni bancarie, queste intoccabili
Lo stesso vale per le fondazioni bancarie, autentiche intoccabili. Ogni volta che la politica prova a regolamentarle, finisce inesorabilmente sconfitta. Una cronaca dei rapporti fra fondazioni e banche nell’ultimo quindicennio potrebbe definirsi “cronaca di una sconfitta” o di un “ritorno” o, magari, di un “ripensamento”. Dopo l’approvazione della legge Ciampi nel 1999 una parte cospicua dei commentatori sposava uno slogan: “liberare le fondazioni dalle banche” e “liberare le banche dalle fondazioni”. Oggi le fondazioni bancarie sono i soci di riferimento dei maggiori gruppi bancari italiani e continuano a esercitare un’influenza dominante nel disegnare le loro strategie e nel dare concreto contenuto alle scelte gestionali. Le fondazioni continuano a svolgere due mestieri, quello di ente non profit e quello di influente gestore delle banche. Dunque, quello slogan è stato smentito dalla realtà: le fondazioni non si sono liberate delle banche e le banche non si sono liberate dalle fondazioni.