Mentre in Italia si parla (straparla?) di rivoluzione green, con tuttavia il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che dalla scuola politica di Italia Viva attaccata l’approccio talebano di, alcuni, ambientalisti, in tutto il mondo dopo anni di retorica c’è un problema: il greenwashing e i socialwashing.
Investimenti ESG, Deutsche Bank nel mirino delle authority Usa e tedesca
Ora è il turno di Deutsche Bank. La scorsa settimana la US Securities and Exchange Commission, authority finanziaria americana, e la BaFin, omologa tedesca della Sec, hanno avviato un’indagine sul braccio di gestione patrimoniale del gruppo DWS di Deutsche Bank AG. L’accusa? Aver erroneamente garantito credenziali ambientali e sociali di alcuni dei suoi prodotti di investimento. La celebre ESG (Environmental, social governance) da anni sulla bocca di tutti e già paragona a una bolla finanziaria. DWS respinge le accuse al mittente ma sono tante le domande che girano nell’ambiente.
L’ex Onu e le accuse di greenwashing
Bloomberg ha riportato le affermazioni di Christiana Figueres, ex segretaria esecutiva della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che ha affermato come i fondi sovrani del mondo stiano dalla parte sbagliata della storia aggrappandosi a strategie che non riconoscono la rapidità con cui il pianeta si sta riscaldando. Una frase pronunciata a nemmeno un mese dal sesto rapporto dell’Ipcc dell’Onu sui rischi dei cambiamenti climatici e del surriscaldamento delle temperature globale. Accusa – non diretta di greenwashing e senza fare nomi specifici – che si abbatte su un settore che ha raggiunto i 35 trilioni di dollari di asset.
La task force della Sec
La Sec statunitense ha messo in piedi una task forse di specialisti per contrastare i comportamenti scorretti anche senza tramutarsi in una sorta di psicopolizia della finanza: buona parte del lavoro consisterà nel divulgare le informazioni sulla sostenibilità delle aziende e gli investimenti ESG.
Cambiamenti climatici: cosa fa Big Oil?
Il capitalismo di adatta ai cambiamenti climatici? Big Oil – i colossi del petrolio – e a ruota quelli del gas, che anche in Italia saranno investimenti dal pezzo più consistente dei fondi del Recovery Fund che puntato sulla trasformazione del modo di produrre e consumare energia in ottica mitigazione, stanno tracciando le proprie strategie. Anche alla luce di altri eventi globali. Colpite ma non affondate dal rovinoso crollo dei prezzi del petrolio nel 2020, oggi le maggiori compagnie petrolifere sono sottoposte pressioni in merito al contributo che intendono fornire agli obiettivi di azzeramento delle emissioni nette entro il 2050.
Exxon, Shell e Chevron
Tra i fatti di cronaca finanziaria degli ultimi mesi un gruppo di azionisti attivisti guidato dall’hedge fund Engine ha eletto tre nuovi membri al consiglio di amministrazione di Exxon Mobil.
Sentenza pesante per Shell
La Royal Dutch Shell è stata obbligata da una sentenza di un tribunale olandese a ridurre le emissioni nette di carbonio del 45% entro il 2030. Mentre gli azionisti di Chevron hanno votato a favore di un taglio delle emissioni totali di gas serra della società. Segnali – certo – ma per le big dei carburanti fossili la strada è comunque in salita: il percorso verso la riduzione delle emissioni di carbonio rimane opaco e provvisorio sempre nella consapevolezza che, a tecnologie attuali, le società e gli Stati avranno ancora bisogno di idrocarburi per i trasporti, l’energia, le sostanze chimiche, la plastica. Tra i nodi principali c’è quello dei costi: l’eolico onshore e il solare sono “puliti” e accessibili. Ma in generale lungo la cosiddetta “filiera energetica” l’energia pulita è costosa, tanto.
BP punta sulle rinnovabili: quanto costa la transizione
Le mosse? British Petroleum sta puntando forte sulle risorse rinnovabili, aprendo alla possibilità di rendimenti
insoddisfacenti su questi investimenti. Chevron ed Exxon Mobil, dal canto loro, si sono mostrate meno disposte
a una transizione non redditizia. Il rischio di questo approccio? Ce diventi intollerabile per i decisori, scienziati, opinione pubblica. Si parte con la pubblicità negativa ma si può arrivare alle sentenze o alle bastonate fiscali e sanzionatorie. Propio la sentenza emessa nei confronti di Shell insegna che, in tempi diversi alle diverse latitudini, compagnie saranno indotte con le buone o con le cattive ad adottare misure. Sarà però una battaglia combattuta ad armi pari. Vale la pena ricorda che BP o Exxon o Eni in Italia hanno un peso specifico che vale quanto un governo. Anche a livello mediatico sebbene sempre più costrette a sfidarsi con Ong e think-tank ambientalisti che crescono di potere, soldi e presenza sulla stampa. Come la britannica Re-Common (con cui Eni ha avuto a che fare in Italia per i vari filoni delle sue “vicende nigeriane” e non solo).
Greenwashing, il report della Ong inglese: 70% dei “fondi verdi” hanno tradito gli obiettivi
Il 27 agosto 2021 la stampa internazionale ha ripreso un report condotto dall’organizzazione no profit londinese InfluenceMap sui “fondi verdi” e le menzogne. Secondo la Ong britannica da alcuni dei più grandi gestori patrimoniali del mondo non sono all’altezza degli obiettivi climatici stabiliti nell’accordo di Parigi con il 70% dei fondi che promettevano obiettivi ambientali, sociali e di governance che hanno “tradito” quel patto. Tra i colossi del mondo, InfluenceMap ha affermato di aver riscontrato carenze e vuoti in alcuni dei fondi gestiti da UBS, State Street Corp e BlackRock. Semaforo verde – è il caso di dire – invece per Invesco e BNP Paribas.
La situazione in Italia
Il quadro in Italia? La prima tranche da 24 miliardi di fondi europei di Next Generation EU che fanno dell’ambiente una vera e propria bandiera è arrivata a Ferragosto. Il ministero guidato da Cingolani supervisionerà o comunque avrà voce in capitolo su quasi il 40% del totale dei fondi e già del decreto del Tesoro che ripartisce le risorse già si vedono i primi progetti all’insegna della parola d’ordine del Pnrr, almeno urlata e sbandierata dai governi: resilienza. Resilienza per le Ferrovie del sud – si legge nel decreto -, resilienza per gli impianti di gestione e smaltimento rifiuti (1,5 miliardi di euro).
“Isole verdi”, green port, resilienza per le Ferrovie: le misure del Pnnr fra investimenti e retorica
“Isole Verdi” (200milioni di euro), 1,9 miliardi per lo sviluppo del bio-metano, 270milioni per la sostenibilità dei porti (“green port”). E via dicendo con decine di progetti simili tra già approvati e di nuova edizione. L’attesa per questi fondi fra classi dirigenti, società di stato e private e quasi fideistica. Le parole roboanti nelle schede tecniche del Pnrr sono tante ma a scavare nelle maglie delle centinaia di pagine prodotte in questi mesi come allegati del Recovery un quadro opaco emerge lo stesso: gli investimenti straordinari promessi sono tanti e vanno tutti nella direzione della mitigazione e appannaggio di grandi produttori o consumatori energivori. Poco invece su quella che si potrebbe definire “manutenzione ordinaria” del Paese. Che avrebbe bisogno di piccole manutenzioni locali, cura del patrimonio boschivo abbandonato (come dimostrano gli incendi di quest’estate) o fluviale e bacino (inondazioni, frane, rischio idrogeologico), un chiaro assetto civile (e non militare come oggi) del sistema di meteorologia e climatologia italiane. Quello che si chiama “adattamento” ai cambiamenti climatici (e governo degli stessi) per conviverci, un po’ come preso atto per il Covid ma più a lungo termine. A questa voce manca la necessaria chiarezza e la domanda sorge spontanea: che anche il Recovery Plan sia un grande bluff di greenwashing?