Pietro Ichino, giuslavorista con una lunga esperienza sindacale, dopo un decennio di lavoro parlamentare, dal marzo 2018 ha ripreso l’insegnamento di Diritto del lavoro nell’Università di Milano. True News lo ha contattato dopo l’intesa raggiunta in Europa sul salario minimo con la bozza di una direttiva che dovrà essere approvata in via definitiva da Parlamento e Consiglio Ue.
Professor Ichino, si è avverata una sua previsione di un mese fa. Quando scriveva di temere che nonostante gli annunci, anche questa volta non se ne sarebbe fatto nulla.
Sarebbe auspicabile che ci si arrivasse davvero. Se ben strutturato e modulato, farebbe molto bene al nostro mercato del lavoro e al nostro sistema delle relazioni industriali. Temo però che, se prima non si scioglie un nodo assai spinoso e difficile, non supereremo la fase degli annunci.
A cosa si riferisce?
L’Italia è lunga, gli squilibri regionali sono molto marcati; il costo della vita a Crotone o a Nuoro è almeno del 30 per cento inferiore rispetto a Milano. Con 1200 euro al mese al sud si può vivere decentemente, al nord no. D’altra parte, anche la produttività media del lavoro è più alta al nord rispetto al sud. Così, per esempio, uno standard minimo orario di 8 euro, che corrisponde all’incirca a 1360 euro al mese, al nord avrebbe probabilmente solo effetti positivi, al sud avrebbe molto probabilmente un sensibile effetto depressivo sulla domanda di lavoro regolare.
Professor Ichino, auspica un ritorno alle gabbie salariali?
La soluzione più lineare consisterebbe nell’affidare a un’autorità – quale potrebbe essere il CNEL, visto che nel 2016 abbiamo deciso di tenerlo in vita – il compito di determinare lo standard minimo in termini di potere d’acquisto effettivo, modulandolo sulla base dell’indice Istat del costo della vita regionale o provinciale. Senonché una soluzione di questo genere urta contro un tabù oggi fortissimo, secondo il quale “non si possono reintrodurre le gabbie salariali”, abolite più di mezzo secolo fa. Un’altra soluzione potrebbe, allora, essere quella di “sgabbiare la contrattazione collettiva”. Consentendole di adattare lo standard minimo alle condizioni particolari delle zone dove il costo della vita è inferiore alla media nazionale; ma anche questa soluzione è sgradita alle confederazioni sindacali maggiori. Certo è che, se non si scioglie questo nodo, è assai difficile che il minimum wage italiano veda davvero la luce.
Perché molti ritengono comunque il salario minimo in Italia un’utopia?
Nei Paesi anglosassoni e in quelli del Nord Europa la tecnica protettiva imperniata su uno standard retributivo minimo orario è efficace. Perché chiunque può capire da solo se la somma che paga o che percepisce rispetta lo standard minimo. In Italia, se questa tecnica protettiva venisse adottata, sarebbe meno efficace. Almeno fino a che la struttura delle nostre retribuzioni continuerà a essere imbarocchita dalla previsione (talora, come nel caso della tredicesima mensilità, risalente a norme corporative) di svariate forme di retribuzione differita che impediscono la trasparenza e la comparabilità immediata dei trattamenti economici. Il confronto tra le paghe italiane e quelle degli altri Paesi è reso particolarmente difficile. Non solo dalla ripartizione della retribuzione annua in tredici o quattordici mensilità. Ma anche dalla diffusione dell’istituto vetusto degli scatti di anzianità e dall’obbligo dell’accantonamento per il t.f.r., che non esiste in alcun altro Paese.