Non ha avuto lo stesso effetto di un buco nell’acqua, perché le entrate record dell’azienda finita nel mirino della Casa Bianca sono state comunque colpite in pieno. Eppure, analizzando l’intera vicenda, è impossibile non fare un ragionamento molto più ampio. Huawei, una delle imprese più importanti della Cina di Xi Jinping, è riuscita a limitare i danni, tanto dal punto di vista dell’immagine quanto, sorprendentemente, da quello tecnologico-economico. Il blocco commerciale attuato da Donald Trump contro il colosso cinese non è stato in grado di affossare la creatura fondata da Ren Zhengfei, accusata di avere legami con i servizi di intelligence e per questo di essere una minaccia per la sicurezza nazionale Usa.
Huawei, entrate in calo per un anno consecutivo
Da quando, nel 2019, un ordine esecutivo di Trump ha predisposto il divieto per le aziende statunitensi (come Intel, Microsoft, Qualcomm e Google) di intrattenere rapporti commerciali con Huawei, l’azienda con sede a Shenzhen ha visto andare in fumo diversi denari. Secondo quanto riportato da Bloomberg, e limitandoci soltanto ai tempi più recenti, le entrate di Huawei sono in calo da quattro trimestri consecutivi. Nei primi tre, addirittura, il fatturato ha toccato quasi 62,5 miliardi di euro, ovvero un terzo in meno rispetto allo stesso periodo del 2020. Nell’ultimo trimestre preso in esame, i guadagni sono crollati ancora, fino a toccare i 18,6 miliardi di euro.
Ma il colosso cinese non ha alzato bandiera bianca
Insomma, Huawei è finita sulla lista nera degli Stati Uniti da due anni, ha dovuto fare i conti con importanti ripercussioni sui ricavi (crollo delle vendite dell’84,9% tra 2020 e 2021) ma non ha alzato bandiera bianca. Anzi: ha trovato il modo di bypassare l’ostacolo, rilanciando a pieno titolo la mission cinese di espandere la propria offerta tecnologica in tutto il mondo.
La strategia di Huawei per annullare il ban Usa
Prima di spiegare che fine ha fatto la crociata ai danni di Huawei, è fondamentale menzionare un tassello del mosaico. All’epoca del ban, fu concessa una proroga temporanea di 90 giorni a Google e al suo sistema operativo, Android, per i prodotti già in commercio. La contromossa cinese non si è fatta attendere. Huawei ha annunciato un sistema operativo made in China e made by China: HarmonyOS. Ma non è finita qui, perché l’azienda del Dragone, per prevenire ulteriori contraccolpi, ha rafforzato App Gallery (il corrispettivo di Google Play e App Store) e venduto la sua divisione low cost Honor a un pool di aziende cinesi.
I prodotti Huawei messi sul mercato da altre aziende
In un primo momento, sembrava che Pechino avesse osato avvicinarsi troppo al sole, fino a bruciarsi e precipitare in fondo all’oceano. Nel giro di qualche mese, ha invece preso forma la nuova strategia di contenimento messa in pratica da Huawei. Varie indiscrezioni parlano di un trasferimento di know-how dalla stessa Huawei ad altre società del settore tecnologico. Xnova (una sezione di China Postal and Telecommunications Appliances, ovvero PTAC) e TD Tech, ad esempio, sono in lizza per sfornare nuovi smartphone capaci di sfruttare l’intero pacchetto di licenze e conoscenze del colosso di Shenzhen. Se tutto dovesse andare per il meglio, gli Stati Uniti avrebbero frenato Huawei ma non i suoi prodotti. Che, immessi sul mercato da altre aziende, non sarebbero soggetti a limitazioni inerenti all’acquisto dei componenti.
Dal quartier generale di Huawei non si è mossa una foglia. Nessuno ha confermato o smentito le voci di corridoio. I rumors sono tuttavia sempre più insistenti, così come la sua road map: cessione in licenza del design dei propri smartphone e accesso alla catena di approvvigionamento dei componenti essenziali, vitali per costruire telefoni e componenti.
Azioni e reazioni: i rischi per la supply chain globale
Indipendentemente dal futuro di Huawei, è doveroso soffermarci su un paio di aspetti. Il primo: il ban americano – Sezione 889, parte B della cosiddetta National defense authorization act – implica che le aziende operanti sul suolo statunitense debbano verificare che la supply chain globale sia sprovvista di componenti Huawei (e di altre società cinesi). Questo significa che il vuoto creato dalla scure di Trump debba essere riempito da altre componenti. Quali? La domanda lascia perplessi, perché organizzare l’intera filiera in tempi brevissimi richiede uno sforzo titanico.
Secondo aspetto: il decoupling tecnologico ai danni delle aziende tecnologiche cinesi rischia di penalizzare le società americane. Per quale motivo? Semplice: il ban ha accelerato il processo di sviluppo dei colossi cinesi (HarmonyOS è l’esempio più lampante). Terzo: disaccoppiare la tecnologia americana da quella cinese implica la suddivisione del mondo in almeno due sfere di influenza, con danni economici non da poco per le aziende coinvolte, e l’aumento delle tensioni politiche in un momento già caldissimo. In generale, bloccare Huawei è una mossa politica che, più che arrecare danni irreparabili al colosso cinese, rischia di danneggiare la supply chain globale con effetti nefasti a cascata.