Perché leggere questo articolo? Il conto che il cambiamento climatico presenta al pianeta è devastante. Lo hanno quantificato in 38mila miliardi di dollari entro il 2049 tre studiosi in uno studio pubblicato su Nature. Secondo il quale ci sarà una perdita media di reddito del 19%. Qualche dubbio sull’attendibilità del report, però, rimane. Riassumibile in quella confortante massima di Keynes: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”.
Il cambiamento climatico presenta il conto. Ed è salatissimo, a giudicare dalla proiezione, pubblicata sulla rivista Nature che stima i costi del climate change da qui al 2049. Il dato è ricavato da un modello messo a punto dall’Istituto tedesco di Potsdam per la Ricerca sull’Impatto Climatico. I ricercatori hanno utilizzato dati locali su temperature e precipitazioni provenienti da oltre 1.600 regioni del mondo, in combinazione con dati sul clima e sul reddito degli ultimi 40 anni e proiezioni climatiche. LEGGI E SCARICA IL REPORT SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO DI NATURE
Il conto salatissimo del cambiamento climatico
Trentotto trilioni (che sarebbero mille miliardi) di dollari. I tre ricercatori del Potsdam avrebbero calcolato con “dati empirici” una proiezione dei costi che da qui al 2049 arriverà a 38mila miliardi di dollari. Questo è il conto salatissimo che il cambiamento climatico presenterebbe all’umanità. La perdita media di reddito sarà del 19% entro il 2050, ma questa cifra nasconde disuguaglianze sconcertanti. Paesi meno responsabili del cambiamento climatico subiranno danni più gravi rispetto a quelli ad alto reddito ed alte emissioni (negli Stati Uniti e in Europa il calo sarà di circa l’11%), con un impatto particolarmente devastante su molte nazioni africane e asiatiche meridionali, dove si prevedono riduzioni fino al 22%.
A soffrire di più i costi del cambiamento climatico saranno quelli a basso reddito e con basse emissioni storiche di inquinanti, che subiranno una perdita di reddito maggiore del 61% rispetto a quelli a reddito più elevato e maggiore del 40% rispetto ai Paesi con emissioni più alte. Francesco Lamperti, dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pis ha dichiarato all’Ansa come “L’Europa mediterranea subirà un impatto maggiore rispetto a quella continentale, e questo perché l’area mediterranea è considerata un hotspot per il cambiamento climatico, dove i suoi effetti si fanno sentire in maniera più pronunciata”.
Cosa non torna, a partire dal metodo
Il cambiamento climatico è una minaccia vera. Ci mancherebbe altro. Solamente, ogni volta che si leggono report così con previsioni così dettagliate, con tanto di cifre, percentuali e distribuzione dei costi, qualche dubbio sorge. Il primo è sul metodo. Anche gli studiosi del Potsdam si avvalgono dei dati del Ipcc. Che sono però controversi e criticati da una parte della comunità scientifica.
Ipcc è una sigla, che sta Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC). E’ un foro scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente allo scopo di studiare il riscaldamento globale. Adduce prove apparentemente ineccepibili, basate sull’effetto serra, a riprova degli effetti del cambiamento climatico. Ma un’autorevole parte della comunità scientifica critica l’Ipcc.
Le critiche all’Ipcc sul cambiamento climatico
Anzitutto, la serie storica delle temperature medie globali in crescita è smentita da dati più affidabili rilevati in Europa e negli Stati Uniti (negli ultimi 105 anni) che non mostrano aumenti. Di più, negli ultimi trent’anni circa, abbiamo temperature precise rilevate nella troposfera (10 km da terra) da satelliti e radiosonde su aerostati: anche da esse non emerge alcun riscaldamento. Il panel utilizza dunque dati controversi.
Ma non basta: con questa serie storica traballante, pretende di simulare un sistema di complessità ingente, quale è il clima, caratterizzato da relazioni non lineari che inducono un’evoluzione caotica dei parametri rilevanti. Freeman Dyson (Princeton University), assieme ad altri, ammonisce: “I modelli del clima non sono strumenti adeguati per prevedere il clima. Dobbiamo avvertire i politici e il pubblico: non credete nei numeri solo perché derivano da un supercomputer”. Infatti, questi modelli non sono nemmeno in grado di simulare il clima del passato. Quanto alle previsioni del panel, “la critica principale che si fa ai modelli è che essi sono accordati’ per ottenere certi risultati”, osserva Guido Visconti, fisico dell’atmosfera.
Nel lungo periodo siamo tutti morti
C’è poi la questione economica degli effetti del cambiamento climatico. Anche qui, i conti non tornano. Due stimati economisti, Ian Castles e David Henderson (ex chief economist all’Ocse), hanno rilevato che in un rapporto utilizzato per la valutazione economica del cambiamento climatico, le proiezioni dei Pil nazionali sono state convertite in una misura comune utilizzando i tassi di cambio di mercato, invece che la parità di poteri di acquisto, in contrasto con i metodi accettati internazionalmente. Così, alla fine del secolo, il reddito medio di Paesi quali l’Algeria, la Libia e l’Argentina supererebbe quello degli Stati Uniti. Resta poi il dubbio di fondo su una previsioni pluridecennale. In un mondo in cui le previsioni (Pil e inflazione per fare due esempi recenti) su dati specifici e in un lasso di tempo limitato a un anno vengono prontamente smentite, come possiamo fidarci di una proiezione al 2050? Torna sempre più attuale quella massima di Keynes: “Nel lungo periodo siamo tutti morti”. Di cambiamento climatico, ma non solo.