Perché questo articolo potrebbe interessarti? Nei giorni scorsi sulla gestione dell’ex Ilva è arrivata la svolta: il governo ha scelto di avviare la fase di divorzio con ArcelorMittal, colosso dell’acciaio franco-indiano che dal 2018 è socio di maggioranza della società che gestisce l’impianto di Taranto: “Adesso però serve chiarezza – ha dichiarato su TrueNews l’esponente di Legambiente Mara Maranò – occorre chiarire subito in che modo andrà avanti lo stabilimento e occorre un serio piano industriale per puntare sulla decarbonizzazione”.
Da un lato c’è ottimismo: “Il governo ha finalmente capito che l’interlocutore privato è inaffidabile”. Dall’altro però c’è anche qualche perplessità per il futuro: “La città di Taranto la vedo rassegnata e sussistono al suo interno profonde spaccature sul futuro dell’ex Ilva”. Le parole sono di Maria Maranò, esponente nazionale di Legambiente ma soprattutto cittadina di Taranto che ben conosce il suo territorio e la storia dell’acciaieria (un tempo) più produttiva d’Europa.
L’iniziale ottimismo riguarda il paventato divorzio da ArcelorMittal. Il colosso franco-indiano dell’acciaio azionista di maggioranza di Acciaierie d’Italia, la società che controlla l’impianto pugliese. Il suo pacchetto azionario è del 62%, la restante parte è invece in mano allo Stato tramite Invitalia. Dopo gli infruttuosi incontri tra l’azienda e il governo a cavallo di capodanno, l’esecutivo è intenzionato a separarsi da ArcelorMittal. In che modo, lo si vedrà nei prossimi giorni. Forse arriverà un commissariamento oppure Invitalia diventerà azionista di maggioranza di AdI: “Ad ogni modo – ha dichiarato Maranò a TrueNews – è un bene che il governo abbia capito l’inaffidabilità del privato. Ora però servono strategie chiare di rilancio”.
Il problema della governance dell’ex Ilva
Dopo il danno, verrebbe da dire, arriva la beffa. ArcelorMittal ha in mano l’ex Ilva di Taranto dal 2018. Da allora, gli investimenti sono stati prossimi e vicini allo zero. Anzi, già nel 2019 la società ha paventato l’addio dall’impianto e solo un compromesso, basato tra le altre cose sull’ingresso del socio pubblico, ha scongiurato questa ipotesi. Ancora oggi però il colosso franco-indiano, oltre a non mettere nemmeno un Euro sul piatto, rivendica soldi dallo Stato.
Un paradosso che, per l’appunto, si trasforma in beffa scoprendo che la stessa azienda da un’altra parte le mani al portafoglio invece le ha messe. E anche in modo importante. Così come fatto notare da Andrea Tundo su IlFattoQuotidiano, ArcelorMittal in Francia sta investendo almeno un miliardo di Euro per la decarbonizzazione e il potenziamento dell’acciaieria di Dunkerque. La beffa diventa doppia se si considera che il governo di Parigi ha promesso un investimento statale di 850 milioni di Euro, mentre Roma per Taranto è arrivata a ipotizzare investimenti pubblici dal valore di oltre due miliardi di Euro. La multinazionale quindi sta investendo in Francia nonostante un aiuto pubblico inferiore a quello che avrebbe potuto ricevere in Italia.
Maria Maranò ai nostri microfoni non si sbilancia circa l’ipotesi secondo cui, a suo tempo, ArcelorMittal ha acquistato appositamente l’ex Ilva per allontanare lo stabilimento pugliese dal mercato. Un’ipotesi rilanciata da diverse parti viste le evoluzioni delle ultime settimane. Si è detta però convinta di una cosa: “Il socio privato non è affidabile – ha dichiarato – è un bene che venga allontanato. Il governo sembra essersene reso conto”. Adesso tuttavia occorre pensare a seri piani di rilancio che, sempre secondo Maranò, passano per una certa chiarezza sulla gestione di AdI e dell’impianto.
“Occorre risolvere il problema della governance – ha rimarcato l’esponente di Legambiente – e serve farlo al più presto. Non saprei dire cosa è meglio per l’ex Ilva, se il commissariamento oppure l’individuazione di altri soci, so solamente che occorre chiarezza sulla gestione. E la chiarezza deve arrivare il prima possibile”. Il primo passo, in poche parole, sarebbe quello di garantire continuità nella gestione e tenere materialmente lo stabilimento aperto.
Un impianto vecchio e su cui servono copiosi investimenti
A Taranto quindi si continuerà a produrre acciaio: “Serve però chiedersi in quali condizioni verrà prodotto – ha sottolineato ancora Maranò – e serve capire quale direzione si vuole indicare per il futuro dell’ex Ilva”. Quello che allarma Legambiente è in primo luogo la condizione degli impianti. Senza investimenti e senza adeguata manutenzione, oggi la struttura tarantina presenterebbe problemi sull’affidabilità delle varie strutture.
C’è un dato, secondo Maria Maranò, che testimonierebbe il quadro molto allarmante dello stato di salute dello stabilimento: “Nell’anno appena trascorso, leggendo i dati resi noti negli ultimi giorni, la produzione a Taranto per la prima volta è scesa sotto i tre milioni di tonnellate – fa notare il rappresentante dell’associazione ambientalista – però i livelli di inquinamento sono aumentati. Lo dimostra il fatto che i livelli di Pm10 e benzene nell’area tarantina sono passati da una media annuale di 3.3 microgrammi per metro cubo di aria nel 2022 ad una di 4 nel 2023”. Si produce di meno, ma l’aria è più inquinata. Circostanza giustificabile, sempre secondo Maranò, unicamente dal fatto che gli impianti sono vetusti e non adeguatamente manutenuti.
“Da ambientalista, dal mio punto di vista tutto questo causa un doppio danno alla salute – prosegue Maranò – c’è il danno per gli operai che lavorano nello stabilimento e il danno per gli abitanti di Taranto”. Due le strade per uscire dal pantano indicate dall’esponente di Legambiente: “Serve un’attenta verifica degli impianti, al pari di una valutazione del danno sanitario – dichiara – e occorre poi chiarezza sugli investimenti”. Chiunque prenderà in mano le sorti dell’ex Ilva cioè, dovrà sborsare per investire sulla sicurezza delle strutture e sulla conversione dell’impianto verso la decarbonizzazione.
Su quest’ultimo punto, Maranò tiene a sottolineare un aspetto: “Per Legambiente la decarbonizzazione contribuirà a rilanciare l’acciaieria e a mantenere i posti di lavoro – ha aggiunto – ma questo non lo diciamo soltanto noi ambientalisti. Basta guardare alle esperienze fatte in altri impianti all’estero e valutare le richieste dell’attuale mercato, dove si chiede sempre più acciaio green. Tutto vira verso questa direzione, senza un’attenzione sull’ambiente si è fuori dal mercato. Ovviamente per intraprendere una strada così importante occorrono anche chiarezza e garanzie da parte dello Stato”.
La parziale rassegnazione di Taranto
L’ex Ilva quindi, secondo questa prospettiva, si potrà salvare unicamente con un adeguato piano industriale. A prescindere da chi controllerà lo stabilimento in futuro, se cioè interamente la mano pubblica oppure un nuovo socio, sul tavolo servirà presentare un chiaro piano che guardi al lungo periodo. Altrimenti il rischio è che tutto rimanga nell’attuale limbo.
Ma Taranto, città che in prima linea ha subito la pessima gestione pluridecennale dell’impianto, è consapevole di queste necessità? Il territorio, da cui dovrebbero partire le prime istanze e le principali pressioni per trovare una soluzione, è cosciente delle sfide importanti che servono per il proprio futuro? “Guardi – risponde a queste domande Mara Maranò – posso dirle che in città per adesso regna un sentimento di rassegnazione, almeno è questa la mia prima impressione”.
Non solo, ma la città pugliese sarebbe ancora spaccata sul da farsi: “Ci sono pesanti spaccature – ha concluso l’esponente ambientalista – tra chi vorrebbe la chiusura definitiva dell’area industriale e chi invece crede nel suo rilancio”. Forse la peggiore notizia è proprio questa: rassegnazione e divisione potrebbero rappresentare il preludio a una sempre più prolungata stagione di stagnazione.