Perchè leggere questo articolo? Il petrolio saudita è in declino come influenza globale? La superpotenza del greggio non ha più la stessa influenza di ieri.
Il suo bilancio non quadra più. Il declino del petrolio saudita è realtà. Il 30 gennaio scorso infatti l’Arabia Saudita ha bloccato un piano di espansione della sua capacità di estrarre greggio. Obbligando il gigante petrolifero di stato Saudi Aramco ad abbandonare l’investimento di quaranta miliardi di dollari, in parte già spesi, con cui Riyadh intendeva passare da dodici a tredici milioni di barili al giorno entro il 2027. Una decisione che però non decreta la fine dell’era del petrolio, anzi. L’oro nero svolgerà ancora un ruolo centrale nell’economia globale. Significa solamente che il mondo sta passando dal greggio di Riyadh a quello di altri competitors. Con gli USA al primo posto. Seguiti dal petrolio del Canada, del Brasile e della Guyana.
L’Arabia Saudita ne ha, ma la domanda rallenta e i competitors aumentano
Da un anno e mezzo l’Arabia Saudita ha ripetutamente ridotto la sua produzione di greggio. Passando da circa 10,2 a 9 milioni di barili al giorno, nel tentativo di tenere alto il prezzo del petrolio per finanziare i faraonici progetti di trasformazione del paese. Come il resort grande quanto il Belgio in riva al mar Rosso, che costerà cinquecento miliardi di dollari.
In realtà Riyadh potrebbe già ora estrarre almeno tre milioni di barili in più, con cui rispondere a eventuali rialzi della domanda. Come spiega il Financial Times, la motivazione di bloccare le estrazioni è strettamente economica. Non avrebbe senso spendere miliardi di dollari per aggiungere una capacità produttiva che probabilmente non verrebbe sfruttata.
L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) stima che nel 2024 in tutto il mondo ci sarà un eccesso di greggio invenduto anche a causa del rallentamento della domanda. Ma soprattutto per colpa della produzione aggiuntiva di paesi che non appartengono all’Opec e quindi non hanno aderito ai tagli dell’Arabia Saudita.
L’oro nero ha un nuovo padrone, la svolta americana
Con 13,2 milioni di barili al giorno, nel 2023 gli Stati Uniti hanno raggiunto il record assoluto di estrazione per un singolo paese. Un record dettato dalla capacità di estrazione di petrolio da scisti bituminosi. Un paradosso in una fase di ripensamento in green in cui da un lato Biden esalta l’autonomia energetica Usa e dall’altro Washington ha messo in pausa l’approvazione per nuovi progetti di esportazione di gas naturale liquefatto (Lng).
Una mossa strategica volta ad ottenere il consenso dei giovani e degli ambientalisti, che hanno accusato l’amministrazione presidenziale di ipocrisia per non aver rispettato le promesse di transizione ecologica, e aver anzi aumentato la produzione petrolifera. La decisione è tra le principali cause del calo dei prezzi del petrolio, che così vanifica il progetto per cui Riyadh intendeva farli salire.
Gli altri giocatori in campo
Oltre ad Arabia Saudita e Stati Uniti, ci sono altri pretendenti al trono dell’impero dell’oro nero. L’offerta russa infatti è stata più forte del previsto. Nonostante le sanzioni del G7 per ridurre la produzione e le entrate di Mosca, il regime di Vladimir Putin è riuscito ad aggirare l’embargo. Con la complicità degli armatori occidentali (soprattutto greci) e delle compagnie legali e assicurative di assicurazione di Londra, la Russia ha venduto il suo petrolio in grandi quantità e spesso a prezzi superiori al limite imposto di sessanta dollari.
Anche l’Iran –membro OPEC ma senza quota – ha scavalcato le sanzioni. La sua produzione infatti è aumentata. Nel 2023 Teheran ha rafforzato l’estrazione di greggio raggiungendo 3,2 milioni di barili al giorno, incassando fino a dieci miliardi di dollari. Secondo alcuni esperti, però, non siamo semplicemente davanti a due regimi abili nell’aggirare i divieti. Washington potrebbe aver allentato la presa per far circolare maggiori quantità di greggio. A dimostrazione che l’era del petrolio non è ancora finita, e il fiuto di Warren Buffet lo conferma.