Prendere la mira, centrare il bersaglio e sparare. Acquistare nuovi equipaggiamenti per rendere il proprio personaggio sempre più forte, con scudi, spade e armature a prova di qualsiasi incantesimo. Sconfiggere draghi e mostri, risolvere enigmi da soli o in team, superare l’intelligenza artificiale del sistema o l’astuzia di un avversario in carne e ossa collegato da un altro continente.
Il soft power dei videogames nello scacchiere geopolitico
Che si tratti di uno sparatutto o di un gioco di ruolo online, indipendentemente dal genere del videogioco, ecco alcune delle situazioni tipo in cui i videogiocatori più accaniti sono chiamati a mostrare tutte le loro abilità. Ma ogni videogioco, oltre al semplice divertimento, nasconde molto altro. Già, perché l’industria del gaming non può più essere considerata soltanto una forma di intrattenimento, se non altro per i soldi che ha iniziato a muovere e per l’enorme quantità di dati generati. Ma c’è ancora dell’altro, perché squarciando anche il velo economico possiamo ritrovarci faccia a faccia con la dimensione geopolitica del videogioco. Una dimensione che comprende sia la concezione secondo la quale ogni videogame rappresenta per un Paese un concentrato di soft power da spendere al meglio, sia la possibilità da parte di un dato governo di influenzare le dinamiche macroeconomiche globali aumentando o facendo diminuire la produzione di console e gadget digitali, in modo tale da arrecare danno a presunti rivali.
Al mondo ci sono tre miliardi di videogiocatori
Partiamo dai numeri, che sono imponenti. Come ha sottolineato Foreign Policy, esistono al mondo la bellezza di 3 miliardi di videogiocatori. Significa che l’industria del gaming ha la possibilità di spremere a più non posso una platea potenzialmente formata da 3 miliardi di persone, ognuna delle quali dotata di dati preziosi – da raccogliere per poi rivendere a terzi o da utilizzare per attività di proliferazione – e spinta dal desiderio di spendere soldi per migliorare la propria esperienza online. Al di là dei problemi legati alle interruzioni della catena di approvvigionamento di console e giochi, con la carenza internazionale di chip per semiconduttori che ha colpito anche altri settori, annotiamo il crescente interesse delle potenze globali in un’industria che sta diventando – un po’ a sorpresa – sempre più strategica.
Nel 2020 ricavi per 159 miliardi di dollari
Nel 2020, i ricavi dell’industria videoludica sono stati stimati in 159,3 miliardi di dollari, facendo segnare un + 9,3% rispetto al 2019. Il boom è dovuto a due cause: la pandemia di Covid-19, che almeno nelle sue prime fasi ha costretto le persone a restare nelle proprie abitazioni, e una migliore capacità dei Gaming Studios (in breve: i produttori di videogame) di realizzare un intrattenimento sempre più sofisticato e attraente. Sono lontani i tempi in cui i videogiocatori erano chiamati a premere due o tre tasti per muovere un personaggio su uno schermo scarsamente illuminato; oggi con i videogiochi è possibile non solo migliorare l’economia, ma anche diffondere al mondo particolari messaggi culturali e, come detto, raccogliere big data.
La Cina entra in partita. E vuole vincere
Uno degli ultimi Paesi ad aver intuito queste e altre potenzialità dei videogiochi è la Cina. Tencent, ad esempio, colosso cinese le cui filiali forniscono anche servizi per intrattenimento, ha da poco acquistato due Gaming Studios occidentali: la britannica Sumo (accordo da 1,27 miliardi di dollari) e la svedese Stunlock Studios (importo non divulgato, anche se in questo caso l’azienda cinese ha ottenuto la quota di maggioranza al termine di un rapporto coltivato anni). Accanto al ritorno economico, Pechino avrà sicuramente pensato ad altro. I videogiochi, infatti, pur intrattenendo i giocatori possono includere forti connotati politici. Basta pensare alle definizioni di bene e male rintracciabili nelle trame dei titoli; negli ultimi decenni, dato che i più influenti Gaming Studios erano occidentali, il bene coincideva quasi sempre con i valori occidentali, come la libertà di parola e la democrazia. Al contrario, gli studi di videogiochi acquisiti da aziende cinesi potrebbero – legittimamente dal punto di vista delle loro strategie di mercato – adattare sempre di più i loro contenuti ai valori cinesi. Forse in attesa di entrare a gamba tesa nel settore, così da imprimere nuovi significati valoriali negli utenti, la Cina ha provato un colpo di coda per omogeneizzare i videogiochi globali. Il Dragone ha proposto una mozione presso l’Organizzazione internazionale per la normazione (ISO) per trattare i videogiochi come un prodotti tecnici e non artistici. Alla fine la mozione è stata respinta, ma la strategia cinese resta chiara: vincere anche la partita dei videogiochi.
Una fetta rilevante dell’industria del gaming è già della cinese Tencent
In che modo? Puntando sui suoi campioni, primo tra tutti Tencent. Questo colosso, che abbiamo già presentato, può vantare centinaia di investimenti nei settori più disparati, compreso quello dei videogiochi. L’azienda cinese controlla il 100% della statunitense Riot Games, sviluppatrice della saga League of Legendes, gioco per Pc più popolare al mondo con un fatturato di oltre 1,3 miliardi di dollari all’anno. Ma Tencent controlla, tra gli altri, anche il 40% di Epic Games, che ha pubblicato Fortnite, un’altra saga videoludica famosissima e redditizia, l’11,5% di Bluehole (PlayerUnknown’s Battlegrounds), il 5% di Ubisoft (in questo caso l’azienda ha aiutato Ubisoft a sopravvivere a un’acquisizione ostile da parte di Vivendi), il 5% di Blizzard, l’80% di Path of Exile, Grinding Gear Games, l’84,3% di Supercell (investimento di 8,6 miliardi di dollari: uno dei maggiori acquisti nella storia dei videogiochi), il 9% di Frontier Developments , il 13,5% di Kakao, il 5% di Paradox Interactive , il 36% di Fatshark e il 29% di Funcom. E la lista potrebbe presto allargarsi.