Uno e dieci, uno e venti – a volte anche cinquanta – al banco, addirittura due euro al tavolo. Da tempo ormai ci si stupisce quando si trova un caffè al bar ancora a un euro tondo. Il caro-tazzina è una costante economica che, in questo cambio d’anno all’insegna dei rialzi, sembra conoscere un picco. La stangata di fine anno non riguarda solo le bollette: oltre alle utenze energetiche, anche il prezzo di numerosi prodotti alimentari conoscerà rincari.
L’inflazione galoppa… anche a tavola
L’inflazione galoppa – l’Istat ha stimato un +3,8% nel 2021 – e si farà pagare cara a tavola: la pasta aumenta del 6%; pesce, cerne, farina, burro e verdure segnano un più 4%; stando a quanto afferma l’Unione nazionale consumatori i dolci sono lievitati del 10%, mentre vini e bevande sono a +3,5%.
Caffè, rincari attorno al 40%
A rendere un incubo i sogni turbati degli italiani c’è il listino prezzi del caffè: nel 2021 ha registrato il più forte aumento dei prezzi rispetto a qualsiasi altro bene nel paniere, subendo il maggior rincaro dal 1994. Il future, il prezzo prefissato da un contratto standardizzato della borsa (il caffè è un bene quotato), ha fatto raggiungere all’Arabica i 2,40 dollari per libbra (quasi mezzo chilo), più del doppio rispetto a inizio anno. Tutte le quotazioni confermano un rialzo per il caffè che nel 2021 si è aggirato intorno al 40%.
Il prezzo più alto degli ultimi 25 anni
Un rincaro in linea con la tendenza degli ultimi 30 anni. Assoutenti denuncia un aumento della materia prima dell’80% negli ultimi 10 anni. Andando indietro negli anni, a prima dell’adozione dell’euro, il bilancio si fa sempre più amaro. Per trovare una stangata sul prezzo del caffè paragonabile a questo carissimo 2021, bisogna tornare al 1994: sono gli anni di Tangentopoli, ma soprattutto della fine della crescita per la “quarta industria del mondo”, della crisi valutaria per l’uscita dallo SME e dell’enorme svalutazione della lira nel 1992 che causò una recessione per la prima volta dopo dalla crisi energetica del 1973.
In un’intervista a Repubblica dell’agosto del 1994, Tullio Galli, presidente della Federazione italiana esercizi pubblici e turistici (Fiepet), denunciava il rincaro per gli esercenti del 30-40% dettato dalle torrefazioni, che si sarebbe ripercosso con un +10% di caro-tazzina sui consumatori. A quei tempi un caffè al bar costava circa 1000 lire che, al netto dell’inflazione, oggi ammonterebbero a circa 70 centesimi. Il rincaro del 1994 portò il caffè a costare 1200 lire, che divennero 1300 (circa 75 centesimi) nel 1997, e poi 1400 l’anno successivo (più o meno 80 centesimi). Con la progressiva adozione della moneta unica il prezzo schizzò agli 85 centesimi nel 2002, a 90 nel 2006, fino ad arrivare alla media di oggi che si attesta intorno a 1 euro e 10 centesimi.
La colazione al bar rischia di diventare un lusso
Il nuovo anno porterà con sé una crescita di oltre il 20% del costo delle miscele di caffè per i pubblici esercizi, che si ripercuoterà sui circa 5 milioni e mezzo di italiani che fanno colazione al bar ogni mattina. Il prezzo nel listino dovrebbe dunque passare dagli attuali 1,09 euro a 1 euro e 50, con un aumento per i clienti che Assoutenti stima intorno al 37%. La colazione al bar rischia di diventare un lusso: al netto dei rincari sulle materie prime dovrebbe passare da 2,4 euro a circa 3 euro e mezzo (+41%).
Il caro-tazzina sembra inevitabile. All’esorbitante aumento dei prezzi hanno contribuito fattori economici globali, come la crisi pandemica e l’inflazione, e altri specifici della filiera del caffè in cui i principali Paesi produttori hanno conosciuto crisi devastanti: climatiche, politiche e della catena dell’approvvigionamento.
Brasile, Colombia, Vietnam ed Etiopia: la geografia della crisi del caffè
Brasile e Colombia – che insieme sommano circa 3 degli 8,5 milioni di tonnellate di produzione annuale -sono state sconvolte dal furioso alternarsi di siccità e ghiacciate che hanno distrutto molte piantagioni. Sull’inasprirsi del clima ha certamente contribuito la politica di deforestazione portata avanti dal presidente brasiliano Bolosonaro. Al secondo posto del podio c’è il Vietnam, che più di altri paesi del sud-est asiatico sta soffrendo la recrudescenza della pandemia, con conseguenti drastiche contrazioni della produzione. Il governo di Hanoi a settembre ha dovuto imporre un nuovo lockdown a una delle popolazioni con il più basso tasso di vaccinazione. La manodopera si è ridotta, mentre sono aumentati i costi per il trasporti del milione e mezzo di tonnellate prodotte nella Tigre asiatica.
A concludere l’annus horribilis del caffè c’è la crisi in Etiopia, quinto produttore mondiale con 350mila tonnellate all’anno. Dopo aver concluso una ventennale guerra con l’Eritrea nel 2018, nell’ex colonia italiane è scoppiata una violenta guerra civile a causa della ribellione della provincia del Tigray. Nel paese vige lo stato d’emergenza e i ribelli a novembre dello scorso anno hanno dichiarato di aver conquistato le importanti città di Dessiè e Combolcià, arrivando a minacciare la stessa capitale Addis Abeba. In un anno di conflitto sono morte almeno 10mila persone e si contano due milioni e mezzo di sfollati. La produzione di caffè, nel paese che ha inventato la qualità Arabica, è decisamente passata in secondo piano.
L’aroma diventa sempre più amaro per una bevanda che da piacere rischia di diventare un lusso.