Nel 1976 Jerome Kohlberg Jr., assieme ai cugini Henry Kravis e George R. Roberts, guidò a New York una scissione del colosso finanziario Bear Stearns, tra le prime società finanziarie a operare nel campo del private equity. Kohlberg, Kravis e Roberts diedero vita a Kkr, uno dei fondi più attenti a operare in forma strategica nel mercato globale, un silenzioso gigante della finanza a stelle e strisce salito alla ribalta delle cronache italiane nei mesi scorsi per l’offerta pubblica d’acquisto su Tim, ma da tempo attento a ramificarsi con forza.
Kkr, un portafoglio di 109 società e 250 miliardi di ricavi annui
Estesosi dall’America all’Europa nel 1998 e a Wall Street dal 2010 Kkr ha un portafoglio di 109 società, che generano quasi 250 miliardi di dollari di ricavi annui e hanno un valore finanziario di 429 miliardi di dollari, concentrate principalmente in settori come real estate, infrastrutture, energia e telecomunicazioni. Utilizza come modo d’azione principale il leveraged buyout, ovvero una prassi volta a ottenere una partecipazione (totalitaria o di controllo) di una società, di un’azienda, di un ramo d’azienda o di un gruppo di attività (target), che ha come caratteristica quella di ricorrere al debito per finanziare la maggior parte del valore di acquisto e mira a aprire la strada a un controllo di medio o medio-lungo periodo non finalizzato all’immediata rivendita dell’azienda. Non pura speculazione, ma un obiettivo di guadagno strutturato e mirato in settori maturi e ad alta potenzialità.
Tra gli altri investimenti, si segnalano quelli in Endeavor (che possiede il circuito UFC e Miss Universo), nel gruppo editoriale tedesco Axel Springer (in cui KKR è il maggior azionista) e nella azienda produttrice di chitarre Gibson. Kkr in quest’ottica ha però puntato con particolare forza più volte sulle tecnologie di frontiera mettendo in quest’ottica più volte gli occhi sull’Europa e il nostro Paese in una corsa che ha avuto la partita per il 5G, in cui è espressione della proiezione anti-cinese degli Usa, il suo acme.
L’ingresso in grande stile di Kkr nel mercato Tlc italiano
Kkr punta all’Opa su Tim dopo aver fatto in grande stile il suo ingresso nel mercato Tlc della Penisola attraverso il suo veicolo Kkr Global Infrastructure. Questo ha nell’aprile 2021 portato a termine l’affare FiberCop concluso con la stessa Tim e Fastweb. Kkr si è mosso per comprare da Tim, per 1,8 miliardi di euro, il 37,5% di FiberCop, la nuova società in cui sono confluite la rete secondaria di Tim (tutto ciò che riguarda le connessioni domestiche e i vari sportelli visibili a lato delle strade) e la rete in fibra sviluppata da FlashFiber, la joint-venture di Tim (80%) e Fastweb (20%). Contestualmente Fastweb, in cambio del 4,5% di FiberCop, ha conferito al nuovo veicolo il 20% di FlashFiber, che è stata poi incorporata in FiberCop, portando Kkr a essere player centrale in questa partita.
Kkr, punta di lancia dell’offensiva Usa nel settore tech
A cosa punta Kkr? Per capirlo bisogna allargare la prospettiva della partita tecnologica e analizzare come Kkr sia la punta di lancia di un’offensiva finanziaria con cui grandi gruppi americani si stanno muovendo per consolidare la filiera del settore delle nuove tecnologie e al tempo stesso creare sinergie “ponte” con l’Europa. Il tutto per unire tecnologia, finanza e geopolitica in un ensemble volto a sbattere la porta in faccia alla penetrazione cinese nei settori strategici. Assieme a uno storico rivale, il fondo DTCP, ad aprile 2021 Kkr ha progettato lo sbarco in Olanda investendo 700 milioni di euro in Open Dutch Fiber e alleandosi con la filiale locale di T-Mobile. Non dimentichiamo che l’Olanda è oggi il Paese forse più strategico per le telco europee, patria inoltre dell’azienda chiave per la partita dei semiconduttori nel Vecchio Continente, ASML, le cui maggiori quote di proprietà sono detenute da Capital Group (USA, 15%), BlackRock (USA, 7.7%), e Bailie Gifford (UK, 4.4%). Unire il pivot mediterraneo dell’Italia a quello nordico dell’Olanda significherebbe per Kkr consolidare una presenza decisiva in campo europeo e connettersi alla corsa ai data center che si è sostanziata a novembre nel’acquisizione di CyrusOne, un player che investe in data center su scala globale, valutato 15 miliardi di dollari.
Mentre Paesi come l’Italia e il resto d’Europa provano a costruire la loro strategia per il cloud sovrano Gaia-X e i poli strategici nazionali finanza e big tech Usa rafforzano la loro presenza oltre Atlantico costruendo le premesse perché tali strutture siano, di fatto, filiazione del mondo tecnologico e finanziario a stelle e strisce.
Kkr, un gigante silenzioso dai forti legami con le istituzioni Usa
Kkr si muove silenziosamente e colpisce senza necessariamente voler mettere a terra rivali o competitor. Piuttosto, usa un sistema ibrido tra il capitalismo “paziente” dell’investimento a lungo termine e l’acquisto a leva che sfrutta vantaggi consistenti. Lontano dalla scintillante pomposità delle grandi banche d’affari o dal vuoto protagonismo delle primarie società di consulenza il gruppo americano punta su un nucleo relativamente ristretto (1.700 dipendenti) di professionisti e sul legame con le istituzioni Usa mediato oggi da un partner d’eccezione, l’ex direttore della Cia e presidente del Kkr Global Institute David Petraeus.
C’è molta Italia nella squadra europea di Kkr
C’è anche molta Italia nella squadra europea di Kkr. La mossa su FiberCop è stata gestita da Alberto Signori, managing director di Kkr responsabile del business infrastrutture per Europa, Medio Oriente e Africa. Inoltre, senior advisor di KKR per le attività di investimento a livello globale nei settori tecnologia, media e telecomunicazioni dal settembre 2019 è Diego Piacentini, dal 2016 al 2018 Commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale. Un segno ulteriore della volontà del gruppo di voler capire i mercati di destinazione per poterli, nel migliore dei modi, scalare. La partita per Tim sarà una cartina di tornasole del futuro di Kkr nel nostro Paese. Silenzioso e implacabile, Kkr mostra la capacità di proiettare la propria forza finanziaria che gli Usa tuttora mantengono nonostante un relativo appannamento della loro capacità di penetrazione all’estero.