Perché leggere questo articolo: John Elkann vero capo dell’opposizione a Meloni? Sembrerebbe così, alla luce delle sfide su industria e media. Vediamo le radici del duello
Il capo dell’opposizione italiana al governo Meloni è John Elkann? La domanda può apparire provocatoria ma ha un fondo di verità. Le testate del gruppo Gedi e il britannico Economist, di proprietà della fu Real Casa Agnelli, oggi entrata nel gotha del salotto finanziario anglosassone non fanno sconti all’esecutivo. Repubblica e La Stampa hanno abbandonato il tono “iper-governista” che li contraddistingueva nell’era Draghi per riscoprire il progressismo a lungo perduto come mezzo di critica a Giorgia Meloni.
Le testate di Elkann contro Meloni
Il quotidiano di Maurizio Molinari non ha fatto mistero di condividere dell’esecutivo essenzialmente solo lo sbandierato iper-atlantismo della premier, mentre Massimo Giannini con La Stampa di Torino ha più volte sparato a zero. Facendosi addirittura regista mediatico dell’operazione “governo tecnico” e del richiamo al vento dello spread come arma anti-governo. Un tema che abbiamo visto essere molto remoto: in un contesto globale di vendita di massa di tutti i titoli di debito accumulati nei bilanci della finanza dall’era del quantitative easing (ivi compresi quelli di Usa e Germania) un’operazione-spread contro Meloni è remota.
Quel che conta è il dato di fatto: creare una barriera al tentativo di normalizzazione del governo Meloni in ambito politico e di fronte ad ambienti che tradizionalmente gli erano ostili. Vale nel mondo progressista riformista, pensiamo solo alle buone parole spese per Meloni da figure come Giuliano Amato e Stefano Bonaccini, di cui sono portavoce i (sempre meno letti) quotidiani Gedi. Vale, soprattutto, per la finanza internazionale a cui guardano invece i lettori dell’Economist. Dalle cui colonne parte, settimanalmente, un fuoco di fila sull’Italia.
L’antica e prestigiosa testata britannica spinge con durezza: aumenta, dall’estate, il riferimento al governo Meloni come hard-right taciuto nei primi mesi di governo; si moltiplicano gli ammonimenti sulla presunta irresponsabilità fiscale dell’esecutivo; si parlano di “nubi scure” sul Paese. Dove finisce il (legittimo) diritto di critica e dove si vede una crescente manovra di accerchiamento all’esecutivo? Difficile stabilirlo. Preferiamo, da osservatori, ricordare un dato di fatto: il contesto globale è grave per tutti. Come ha detto a True-News l’economista Andrea Roventini, si può criticare duramente l’agenda Meloni sull’economia partendo però da un presupposto: “nessun successo e nessun fallimento può essere imputato in toto a un singolo governo”.
La sfida di Meloni su Stellantis
Nell’attacco del mondo-Elkann e dei media ad esso legati a Meloni si può però sicuramente individuare una fase scatenante: l’ipotesi di un ingresso dello Stato nel capitale di Stellantis ventilata tra maggio e giugno dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. L’idea – sulla carta – è comprensibile. La Francia detiene una quota del capitale del colosso euroatlantico dell’automotive fondato da Fiat-Chrysler e Citroen-Peugeot nel 2021. L’Italia, invece, no. Inoltre, Stellantis ha tra i listini di quotazione Euronext, a conduzione franco-olandese e controllante Piazza Affari.
La manovra, va detto, se ben congegnata non sarebbe peregrina sul fronte industriale. Fiat e dintorni hanno ricevuto, e molto, dallo Stato. Ora Roma farebbe carte false per preservare una pur minima parvenza dell’italianità dell’impero degli Agnelli-Elkann: dall’ipotesi di finanziare gigafactory per veicoli elettrici alla partita sui semiconduttori la corsa appare strutturata. La proposta del governo Meloni ha raccolto consensi: dallo storico manager Exor Luca Cordero di Montezemolo a Il Sole 24 Ore con diversi editoriali e analisi, passando per l’ex numero uno di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, presidente del Gruppo Omr, Officine Meccaniche Rezzatesi, storica azienda bresciana dell’automotive.
Elkann non guarda più all’Italia
Uno schiaffo per Elkann, che da tempo sta lavorando a una graduale de-italianizzazione del “cuore” del suo impero. Passante per grandi investimenti hi-tech tramite il fondo Lingotto e l’ingresso nelle lifesciences. E si è visto, in Italia, “mortale”. L’Italia non si chiede più cosa pensi John Elkann di un problema, come faceva invece con suo nonno Gianni Agnelli, prima di affrontarlo. E questo smacco ha avuto carattere personale.
Mario Draghi, spingendo col golden power a fermare la vendita di Iveco a un consorzio cinese da parte di Elkann, aveva inaugurato una fase in cui lo Stato si riprendeva i suoi spazi rispetto all’effetto-cappa del sistema-Agnelli/Elkann. Meloni e Urso, con la proposta di ingresso nel capitale del gruppo, l’hanno consolidata. Creando un gruppetto di opinionisti, manager e testate favorevoli ad applicare a Stellantis la dottrina del ritorno dello Stato proprio mentre Elkann globalizzava al massimo il gruppo. Il Sole 24 Ore e la sua natura sostanzialmente non ostile all’operazione ha mostrato anche il ritorno di fiamma di Confindustria, che ancora paga il distacco di Sergio Marchionne dal suo sistema in termini di prestigio, che ha antichi e solidi conti da regolare con la Real Casa.
Sovranismo contro globalismo
Da qui, secondo quanto scritto da Stefano Cingolani su Il Foglio, nasce la strategia di presentare Elkann e il suo sistema “a capo di una opposizione politica e fautore di una battaglia culturale, contro una “deriva protezionistica e autoritaria”, per impedire un “orbanismo” italico”. Ovvero quel rischio di cui “ogni giorno si legge sia sulla Repubblica sia sulla Stampa, quel che scrivono i rispettivi direttori, Maurizio Molinari e Massimo Giannini. Due mondi a confronto, quello liberal-democratico e cosmopolita contro quello sovranista e autoritario”. Questa la narrazione degli Agnelli-Elkann. Che però, in quest’ottica, sembra voler arruolare al servizio della causa anti-Meloni buona parte delle forze ritenuti più ostili contro l’esecutivo.
Tra queste, sorprendentemente, la Cgil di Maurizio Landini. Segretario confederale a cui è sempre dato ampio spazio di critica dell’esecutivo su Repubblica, come ha perfidamente fatto notare Carlo Calenda, un leader politico tutt’altro che pregiudizievolmente favorevole al governo. E che in un post sui suoi canali social ha sottolineato l’assenza di critiche di Landini a Elkann per la scabrosa eredità di Magneti Marelli e del rischio de-industrializzazione dello stabilimento di Crevalcore, già gioiello tecnologico del gruppo dismesso nel 2019. Insomma, un sistema politico-economico-mediatico a tutto campo assai complicato in cui Elkann vuole colpire Meloni per accentuare il suo distacco dall’Italia. E difendersi da “cordate” di interessi ritenuti ostili al suo business. Partendo da quella che spinge per il ritorno dello Stato nel capitale di Stellantis. Presupposto di una continuità dell’inquadramento del gruppo ex Fiat nelle logiche capitalistiche nazionali da cui il nipote dell’Avvocato vuole, da tempo, distaccarsi.