L’uscita allo scoperto del fondo statunitense Kkr per l’acquisizione di Tim è solo l’ultimo capitolo di una lunga e complessa saga che ha portato al graduale ridimensionamento e al depotenziamento di un’azienda a lungo fiore all’occhiello della tecnologia italiana.
Nelle sue diverse denominazioni l’attuale Telecom ha a lungo gestito un complesso apparato esteso anche oltre i confini nazionali. Tra gli Anni Sessanta e Settanta, in particolare, si costruì il ramificato “impero romano” della Stet, realizzatrice di cavi e interconnessioni che aprirono all’Italia frontiere che andavano dall’Africa australe al Mediterraneo, dal Portogallo al Brasile.
Dalla privatizzazione del 1999, però, non si può dire che Telecom Italia abbia seguito un percorso facile. Troppo spesso le necessità di innovazione, sviluppo sistemico e crescita dimensionale dell’azienda nel suo sempre più complesso core business, rese ancora più difficili dall’avvento della digitalizzazione e di nuove forme di integrazione tra dispositivi, sono state messe in secondo piano rispetto alle guerre tra le diverse cordate che più volte hanno provato ad agganciare il timone di Tim.
Emblematico quanto scritto dall’ex ad di Tim Franco Bernabé in A conti fatti, autobiografia di colui che è stato uno dei maggiori boiardi di Stato italiani tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Repubblica. Nel 1999, nel pieno delle campagne incrociate per la scalata a Tim, Bernabé parlava delle conseguenze industriali della poi celebre Opa dei “capitani coraggiosi” come di una minaccia alla prospettiva di sviluppo di Tim: “Faticavo ad accettare l’idea che un piano industriale potesse contemplare tra i suoi obiettivi quello di svuotare l’impresa di risorse per distribuire una ricompensa immediata agli azionisti”.
Game, set, match. La disamina tracciata da Bernabé sintetizza oltre venti anni di dibattiti su Tim. Come ricordato da Repubblica, “all’indomani della privatizzazione, nel 1999, fatturava 27 miliardi e l’utile era intorno a 2,4 miliardi. Oggi, dopo molte dismissioni e poca chiarezza nelle strategie industriali, le dimensioni del gruppo sono più o meno dimezzate”.
E anche in un 2021 che avrebbe dovuto rappresentare per le telco un anno di crescita e successi Tim si è arenata. Nessun tonfo, va detto, è stato registrato dai dati. Ma il calo del dinamismo del gruppo segnala un’assenza di inerzia che non può non preoccupare. L’ebitda del gruppo dei primi 9 mesi è stato pari a 4.394 miliardi (-4,4%), l’ebit è stato di 985 milioni, a fronte di 1,627 miliardi nei primi 9 mesi del 2020 (-39,46%). I dati relativi al periodo luglio-settembre, invece, segnalano che i ricavi di Tim nel terzo trimestre sono ammontati a 3,8 miliardi (-2,1% rispetto al secondo), mentre il risultato netto si è attestato a 200 milioni.
Nel corso degli anni, Tim è passata dall’era in cui emergevano i primi telefoni cellulari a quella del 5G, dell’intelligenza artificiale e dell’internet delle cose senza mai definire una strategia di medio-lungo periodo se non su base settoriale. Guardando al mondo dei movimenti dirigenziali e delle nomine, non è stato ad esempio un caso che Marina Geymonat, la direttrice di una delle poche centrali di resistenza di Tim al declino, l’Artificial Intelligence Center of Exellence, abbia nelle scorse settimane deciso di lasciare la società per passare a Sisal; o che si moltiplichino le voci sul futuro di una possibile uscita di scena dell’ad Luigi Gubitosi, che ha provato a dare sostanza a quanto rimaneva di fattibile per posizionare competitivamente il gruppo, con il progetto della rete unica che è apparentemente rimasto a lungo in sospeso salvo poi declinare tra il 2020 e il 2021.
Tutto questo non senza alcune mancanze sul fronte del decisore politico: tra il 2014 e il 2016, ad esempio, il governo Renzi ha fatto il piano per la banda ultralarga ed è nata Open Fiber, creando la paradossale situazione di una società a partecipazione pubblica come Tim trovatasi a competere con un altro player partecipato (tramite Enel e Cdp, oggi azionista di riferimento di Open Fiber ma anche azionista in Tim) dallo Stato su un dossier strategico. Una grana non risolta dal gruppo di telecomunicazioni che, nota Agenda Digitale, in estate ha deciso di “scorporare societariamente la propria rete di accesso costituendo un nuovo veicolo, FiberCop, con azionariato aperto ai concorrenti e struttura di governance condivisa senza pari in UE, in cui si è fatta confluire anche l’azienda FlashFiber che era stata fondata con Fastweb per realizzare la rete ottica.
In questo contesto, è logico vedere a tali manovre come a una serie di mosse legate a schermaglie tra azionisti (Vivendi, Cdp, Elliott) che hanno portato alla precauzionale ma ben poco saggia scelta di preferire la creazione di valore a breve termine all’acquisizione di un capitale operativo volto a rafforzare il sistema-Paese in un’ottica di lungo periodo.
Come intende giocare Tim la partita del 5G europeo dopo l’ingresso nel network O-Ran avvenuto nei mesi scorsi? Come intende rafforzarsi industrialmente nella creazione delle reti in fibra e come nel quadro di consorzi come Inwit? Come vuole raccordarsi al tessuto innovativo, imprenditoriale e di ricerca italiano? Come muoversi nel mercato globale? Tutte queste domande operative sono senza risposte mentre con Kkr in pista si preannuncia una partita-chiave che potrebbe determinare il futuro del gruppo vincolandolo, nuovamente, a strategie di massimizzazione a breve termine del valore azionario non unite a piani strategici di sviluppo. Come fu per i “capitani coraggiosi”, come successo per lo sbarco di Telefonica e, poi, per le mosse di Elliott e Vivendi Tim risulta una volta di più un obiettivo centrale per finanzieri raider. Al governo Draghi potrebbe restare, in caso di rischi di depotenziamento eccessivi di Tim, l’esercizio del golden power, arma però da maneggiare con cura. E che non risolverebbe la grana principale, il dibattito legato al rapporto tra Tim e l’agenda strategica del Paese: cosa vuole fare il gruppo di tlc italiano da grande? Ad oggi non è dato sapersi.