Il debito Usa vola a decine di migliaia di miliardi dollari e non appare destinato a scendere in tempi brevi, anzi. I dati del Congressional Budget Office americano danno come raggiungibile e superabile la soglia dei 50.700 miliardi in dieci anni. E in un contesto che vede Washington ancora indecisa sul taglio al costo del denaro con la Federal Reserve “sorpassata” dalla Banca centrale europea questo è indubbiamente un problema.
“Gli Stati Uniti stanno spendendo in interessi sul debito una cifra astronomica, tra le maggiori voci di spesa del bilancio Usa”, ricorda a True-News l’analista economico e geopolitico Giacomo Gabellini, autore di Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana (Diarkos). Ad esempio, nota Gabellini, sul debito Usa “pesa molto la decisione di tenere i tassi d’interesse elevati. C’è poi la necessità di attrarre capitali per finanziare gli investimenti promessi dall’amministrazione Biden con piani tramite l’Inflation Reduction Act e il Chips Act”.
Il fardello del debito
I sussidi, va da sé, “si devono in qualche modo finanziare”, ragiona l’analista. Aggiungendo che di fatto “si registra poi una declinante appetibilità dei titoli di Stato americani” ad opera dei principali acquirenti, le istituzioni finanziarie sovrane dei Paesi di tutto il mondo.
Gabellini ricorda che “guardando alla detenzione di titoli di debito Usa da parte delle principali banche centrali globali, vediamo che nonostante emissioni voluminose quadruplicate dal 2008 in avanti e tassi arrivati al 5,5% la domanda non è esplosa, anzi. Le banche centrali o rinnovano gli investimenti o gli scaricano, come sta facendo la Repubblica Popolare Cinese”. A comprare debito americano sono soprattutto gli investitori istituzionali, come i fondi pensione, che, ricorda Gabellini, “non hanno lo stesso obiettivo delle banche centrali, desiderose di detenere debito Usa come riserve di valore. Gli investitori istituzionali, infatti, hanno per mandato la necessità di fare profitti e investono quando i titoli rendono molto”.
Gli impatti sul dollaro
Ora gli Usa si trovano potenzialmente in un cortocircuito. Il debito sale e deve essere finanziato; le emissioni sono assorbite da chi le trova appetibili proprio per gli alti rendimenti; i programmi federali costano e chiederebbero una riduzione dei tassi per favorire gli investimenti pubblici o privati. Ma, ricorda Gabellini, “di fronte di un abbassamento dei tassi, e dunque delle marginalità attese in tal senso il problema sarà grosso se verrà meno la quota di acquirenti istituzionali”. Questo obbligherà gli Usa a “tenere tassi d’interesse alti, e dunque a gestire un problema di sostenibilità di un debito sempre più vasto.
Si imporrà un collegamento con i processi di dedollarizzazione spinti dall’abuso di sanzioni e dazi che la militarizzazione del biglietto verde da parte di Washington ha accelerato”. Abbiamo visto di recente l’Arabia Saudita rifiutare di rinnovare l’accordo cinquantennale del 1974 che era alla base del petrodollaro. Questo ci indica che gli Usa avranno crescenti difficoltà a finanziare il proprio debito se, soprattutto, a ritirarsi saranno quelle economie che finanziano il peso “geopolitico” del dollaro. Il mondo continuerà a scambiare il biglietto verde. Ma la capacità di Washington di usarlo come arma strategica verso Paesi rivali e amici sarà dimidiata dal fardello debitorio sempre più pressante.