Perché leggere questo articolo: Polonia, Romania, Serbia e Albania sono i Paesi dove si concentra la delocalizzazione industriale italiana. E la somma dei commerci con Roma e questi quattro Paesi quasi eguaglia quello col Dragone cinese
La “nostra” Cina si chiama Europa orientale: l’Italia, forte di una delocalizzazione industriale più pragmatica, ha in proporzione quote di imprese maggiormente direttesi verso Polonia, Romania, Serbia, Albania e altri Paesi dell’Est rispetto a Stati come Germania e Francia. E questo può mettere al riparo da qualsiasi rappresaglia economica si possa temere in caso Pechino decida di aumentare la pressione su Roma se Giorgia Meloni non rinnoverà il memorandum sulla Nuova Via della Seta.
La “Cina” italiana in Europa orientale, al contrario di Berlino
La scelta del governo Conte I nel 2019 rispondeva a un’esigenza pragmatica: creare un viatico per un confronto geoeconomico a tutto campo con Pechino. Capace di regolamentare le aree di competizione e espandere gli spazi di cooperazione economica. Il memorandum non era né una trappola né una gallina dalle uova d’oro, ma un “contenitore” che Roma e Pechino avrebbero dovuto riempire come meglio credevano. E in quest’ottica i risultati promossi, complici Covid, competizione geopolitica e crisi industriale, sono stati negli anni ben pochi.
E se da un lato la presenza dell’Italia è residuale rispetto a quella di economie come quelle di Parigi e Berlino nel mercato della Repubblica Popolare, in tempi di crisi delle catene del valore e di discussioni sul reshoring dall’altro per Roma il pragmatismo del passato può tornare positivo. Se il 71% delle imprese industriali tedesche che ha avviato operazioni di delocalizzazione guarda in Cina, come evidenzia un report Kpmg sui rapporti Berlino-Pechino, per Roma il quadro è diverso: Paesi extraeuropei l’India (9%), gli Stati Uniti e il Canada (6%), e la Cina (5,6%) occupano quote di delocalizzazione residuale. La maggior parte delle imprese che delocalizzano si muove in Europa, per la precisione il 60% del totale.
Polonia, Romania, Serbia e Albania: le frontiere italiane dell’industria
Guardiamo a quattro Paesi centrali per le politiche industriali di delocalizzazione: Polonia, Romania, Serbia e Albania. Un’economia di trasformazione come quella italiana ha spostato in molti di questi Paesi la produzione di semilavorati e l’esternalizzazione di servizi all’industria manifatturiera. Ebbene, in un contesto che vede l’export italiano in Cina fermo a 19 miliardi, contro i 121 della Germania, includendo anche l’invio di macchinari e componenti per le industrie in loco, e l’import da Pechino a 57 miliardi, contro i 134 di Berlino, la somma totale del commercio italo-cinese era a fine 2022 a 76 miliardi. Quasi pareggiato dalla somma dei quattro Paesi europei.
Con la Polonia il commercio era al 2022 sopra i 33,5 miliardi di euro: 19,387 miliardi di export, 14,184 di import. Bilancia commerciale in pari sostanzialmente per la Romania: 9,735 miliardi di export italiano, 9,278 di import da Bucarest, per un totale vicino ai 19 miliardi di euro. Con la Serbia siamo a 3,7 miliardi: 2,2 di export, 1,5 di import. Poco sotto, a 3,2 miliardi, la nostra sorella d’oltre Adriatico, l’Albania: 1,7 miliardi di export, 1,5 di import.
Uno scenario equilibrato in caso di crisi
Il totale fa circa 59,5 miliardi di euro sommando solo questi quattro Paesi. Una quota il 78% del totale dei volumi di scambio tra Italia e Cina sommando quattro Paesi che complessivamente contano molto meno di Pechino nell’economia globale. Polonia, Romania, Albania e Serbia contano complessivamente 67,5 milioni di abitanti, il 4,7% della popolazione cinese e il 7,3% del Pil della Repubblica Popolare. Togliendo al commercio italo-cinese la quota di importazione di prodotti elettronici di cui l’Italia non conta più industrie primarie nazionali (9,7 miliardi di euro), la più consistente in termini nominali e che non contribuisce al rientro delle produzioni delocalizzate, la somma è ancora più equilibrata: l’89,5%.
Questi dati confermano la flessibilità passata dell’industria italiana nello scegliere mercati vicini per una delocalizzazione privilegiata e che in quest’ottica può mettere il mercato nazionale al riparo da ogni scossoni. E se una risposta dura cinese a un’uscita italiana dal memorandum appare un’ipotesi remota, d’altro canto ben più prospettica può essere l’idea di una crisi strutturale di Pechino nei prossimi mesi e anni. Da cui l’industria nazionale sarebbe ben meno toccata rispetto ai partner e concorrenti del Vecchio Continente.