Quello che esce dalla crisi di governo scatenata da Matteo Renzi è un Movimento 5 Stelle diviso, spaccato in due. E una di queste metà è sicuramente più malridotta – e isolata – dell’altra: quella di sinistra, più vicina ai temi dell’assistenzialismo e alla tutela del lavoro. Un manipolo di parlamentari malvisto da destra, ovviamente, ma anche da un pezzo del Partito Democratico – per tacere di Italia Viva, il cui leader si è da poco dichiarato “geloso” del costo del lavoro in Arabia Saudita – e dagli altri pentastellati, decisi a provare un’altra strada.
Il salario minimo
Con questo spacco il M5S perde di fatto la sua frangia “lavorista”, quella che nel corso del primo governo Conte ha spinto per il Reddito di Cittadinanza e che stava lavorando in tempi più recenti alla riforma del salario minimo. Quest’ultimo è un punto nevralgico, e lo sarà anche per il prossimo governo: come già scritto da True Working, l’Unione Europea ha chiesto a tutti i suoi membri di adottare dei “livelli minimi di retribuzione”, aprendo a un salario minimo italiano. Anche per questo la parte più a sinistra del M5S aveva dialogato con personalità quali Marta Fana, economista e autrice di Basta salari da fame (che non a caso ha pubblicamente salutato la ministra del lavoro Nunzia Catalfo, tra le principali attrici della corrente grillina oggi in crisi).
Un altro fronte aperto – o destinato ad aprirsi – è quello sul Reddito di Cittadinanza, di cui alcuni partiti chiedono l’abolizione ma che molti vogliono semplicemente riformare – o meglio, privatizzare, specie per quanto riguarda le politiche attive di ricerca del lavoro, che fanno gola alle agenzie private ma che ora fanno capo al pubblico. Da qualunque punto di vista si osservi la situazione, comunque, una cosa è certa: c’è una parte di Movimento che pesa meno di prima. Staremo a vedere cosa sceglierà di fare, e che ne sarà delle loro istanze sul lavoro.
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