di Francesco Floris
Gli uffici sono morti? Proprio per niente. “Le sedi centrali non potranno scomparire perché sono dei simboli prima ancora che degli edifici, sono l’elemento di catalizzazione e inclusione mentre sul territorio ci sarà bisogno della connessione visto che l’home working ha mostrato, per ora, tutti i suoi limiti”. Quando una grande azienda vuole aprire un headquarter a Milano, tra le prime persone che chiama c’è Massimo Roj. Architetto, amministratore delegato di Progetto CMR, grande esperto di uffici e delle frontiere fisico-spaziali che riguardano il lavoro. L’ultimo grande “disegno” in portfolio è una delle due alternative progettuali su cui Milan e Inter devono puntare insieme all’amministrazione comunale di Milano per cambiare i connotati di San Siro. Stadio e quartiere, se e quando si farà. Massimo Roj ospite di “The True Show” su Telelombardia il 25 febbraio per parlare di real estate, futuro dell’immobiliare a Milano, rigenerazione urbana. A True-News parla delle sue riflessioni maturate nei mesi del Covid e della pandemia. Dal punto di vista infrastrutturale e economico.
“Gli investimenti tengono”
“Al momento non stiamo cogliendo un rallentamento degli investimenti nell’ambito uffici – dice a True-News – in particolare per quanto riguarda gli investitori internazionali”. Parla di “nessuna cancellazione”, al massimo una “dilatazione dei tempi” con le uniche ovvie preoccupazioni legate ai “numeri della pandemia per cui nessuno vede una data di scadenza”. Da aprile 2020 Progetto CMR ha costituito una task force interna a competenze allargate: non solo nell’ambito dell’architettura ma anche medicina, tecnologia, psicologia. “Per agevolare il rientro o proporre nuove soluzioni spaziali sugli uffici”. L’atteggiamento dei clienti? “Due approcci uguali e contrari” dice l’architetto. Da una parte “chi ci chiede di avere tutti uffici chiusi e sigillati all’interno per ragioni di sicurezza”, dall’altra “chi invece non vuole più avere uffici, scrivanie, ma solo spazi condivisi. Se si vuole sono i due limiti delle trasformazione che stiamo osservando”. Nel primo caso prevale una riduzione della presenza del personale che può arrivare fino al 40% dell’organico, nel secondo anche prevale il lavoro da remoto ma con la presenza in ufficio che ha un’incidenza corposa.
Il futuro? Co-working (nonostante la crisi)
Fra chi ha pagato più da vicino – anche per carenze interne – la crisi immobiliare di certi segmenti connessa al Covid c’è sicuramente il mondo dei co-working e delle re-location costrette ai mesi forzati di chiusura. Gli investitori hanno davanti agli occhi la bolla di WeWork, arrivata a capitalizzazioni da urlo in borsa per la controllata dei giapponesi di SoftBank e finita per schiantarsi contro un muro (anche se da poco ha aperto una sede in via Mazzini a Milano, in quella che Beppe Sala ha definito “la via più triste della città”). Va detto che anche Covivio, il colosso italo-francese partecipato da Del Vecchio ha deciso di scommettere su questa formula, inaugurando il nuovo spazio in Cordusio “Wellio” pochi mesi fa. Per Roj lì c’è uno dei futuri possibili.
Smart working? “Uccide orari e quotidianità spaziale”
“Si andrà sempre di più verso una soluzione di utilizzo di spazi condivisi” dice ma “con la creazione di centri satellite di lavoro esterno per trovare una condizione di lavoro stabile dal punto di vista fisico, con connessioni infrastrutturali e telematiche valide, postazioni conformi alla norma invece della panca di una cucina con i fili che scivolano lungo le gambe o la schiena e soprattutto avere un orario di lavoro effettivo”. Perché per lui la morale del cosiddetto smart working è propria questa: “Lavorando da casa non c’è più limite all’attività e manca la quotidianità spaziale, quella per cui ci si sposta in un determinato luogo per scandire il tempo dedicato al lavoro e quello da dedicare a se stessi”.
Mini-hub per i pendolari
Ciò su cui sta lavorando l’architetto negli ultimi mesi è affascinante e già commissionata da alcuni clienti: sedi centrali delle società (o del pubblico) di rappresentanza dove ci si reca una o due volte a settimana e poi una serie di mini-hub a destinazioni varie lungo le direttrici dei pendolari per lavoro, anche all’interno della stessa metropoli o hinterland. C’è addirittura chi fantastica su possibili soluzioni del futuro, che però vengono concettualmente dal passato. Come dei nuovi villaggi “operai” dove le aziende in fase di assunzione o stabilizzazione offrono anche convenzioni abitative per appartamenti in vendita e locazione in modo tale da concentrare i lavoratori di un determinato comparto come high tech, comunicazione, comparto legale nello stesso quartiere e favorire socializzazione e spostamenti.
Crespi d’Adda del XXI secolo?
Una sorta di “Crespi d’Adda” del ventunesimo secolo. Fantasie? Forse. “Più facile – ribatte Roj – chiedere alle persone di spostarsi per lavoro che non per l’abitazione perché siamo pur sempre l’Italia con una radicata cultura sulla casa di proprietà: nella nostra vita mediamente facciamo tre spostamenti di abitazione, mentre negli Usa la media è circa 10-12”. Quindi? “I centri di lavoro esterno che stiamo immaginando non devono essere codificati per solo alcune tipologie di lavoro ma avere potenzialità più ampie e versatili, con magari all’interno degli aggregatori sviluppati in verticale tendenti a una maggiore specializzazione produttiva o mansione come possono essere quelle artigianali o le alte competenze digitali e tecnologiche”.
Il futuro della città? “Quartieri autosufficienti”
E il futuro delle città dal suo punto di vista? Ha in mente un’immagine chiara. “Credo che il co-working possa diventare il punto di aggregazione delle persone che lavorano nei quartieri, riattivando il nostro patrimonio, con le città fatte di piccole aree autosufficienti dove si trovano tutte le funzioni: dalla residenza, ai servizi, all’artigianato, agli uffici, agli spazi verdi, la scuola, le aree sportive”. “Le persone devono potersi muovere facilmente fra questi distretti grazie al sistema di trasporto pubblico o condiviso in modo tale che una o due volte a settimana si debba andare nella sede principale per sentirsi parte di un gruppo o per confronti con colleghi, responsabili e sottoposti”. “Rimane il fatto – chiude Massimo Roj – che anche nel contesto attuale qualunque costo di sanificazione o distanziamento protettivo è inferiore ai costi sociali di milioni di persone che si spostano, perché nelle città globali il pendolare medio realizza spostamenti di 40 minuti ciascuno. Paghiamo tutto questo in termini di stress, inquinamento, viaggi e tempo, prezzi e tariffe. La soluzione c’è ma non è lo smart working della pandemia”.