Perché leggere questo articolo? Le nuove dinamiche nel mondo del lavoro stanno portando a snobbare mestieri un tempo considerati ottimi. Il preside a scuola, il posto fisso nel pubblico e il presidente. Ecco i mestieri che – incredibilmente – nessuno vuole più fare.
Non ci sono più i mestieri di una volta. Non solo quelli umili, anche quelli un tempo erano considerati importanti stanno conoscendo un sorta di rigetto. Dalle grandi dimissioni ai grandi rifiuti. Un fenomeno che coinvolge professioni e titoli insospettabili. Dal sindaco del piccolo paese, fino al presidente di importanti istituti. Passando per il preside a scuola e i vertici di alcune società partecipate. Se la carica è solo “onorifica”, il gioco non vale più la candela.
Il sindaco e il presidente: mestieri che nessuno vuol fare
Una questione emblematica, che torna in voga in questi giorni con una storia che può ergersi a paradigma del nostro Paese. Non c’è la fila per fare il presidente di AIFA. Il vertice dell’Agenzia Italiana per il Farmaco è un posto importante, autorevole e gratificante. Ma è anche un mestiere malpagato e limitante. I 120mila euro di stipendio sono tanti per un comune mortale, ma non per le figure che normalmente dovrebbero ambire alla poltrona dell’AIFA. Parliamo di “professoroni”, spesso anche consulenti di aziende importanti. Per diventare presidente AIFA non basta lasciare gli incarichi pendenti, per i tre anni successivi il presidente AIFA non può fare praticamente nulla.
Una situazione paradossale, che fa il paio con un altro caso emblematico. Da tempo nessuno vuole più fare il “mestiere più bello del mondo”: il sindaco. Specialmente nelle piccolo e medie città, quelle al di sotto dei 30mila abitanti, è un lavoro ingrato. Responsabilità sproporzionate rispetto a un’indennità ‘inferiore’ a quella di altre figure istituzionali. Poi la burocrazia infinita e le casse pubbliche sempre più vuote. La professione di primo cittadino è uno slalom. E nei piccoli comuni somiglia al volontariato: per 1800 euro al mese senza contributi fareste questa vita?
Preside e PA: i lavori pubblici che non piacciono più
Ai singoli casi specifici si aggiunge una tendenza generale. Le nuove dinamiche nel mondo del lavoro stanno portando a snobbare il posto pubblico. Vale nella sanità (dove una stima recente ha calcolato che mancano oltre 90mila figure), ma anche per altri settori della pubblica amministrazione. La scuola, ad esempio, vive un paradosso: c’è la fila per fare il professore, ma mancano i presidi. Se i docenti mancano per colpa di un sistema di reclutamento che definire delirante è poco, la carenza di dirigenti scolastici è dovuta al fatto che il preside è una professione che non attira più. Ne mancano quasi 300 in Italia: oltre 50mila studenti sono affidati a reggenti. Burocrazia, incombenze e ricorsi, il tutto per 2900 euro al mese. Un mestiere che non attira più.
La carenza di personale inizia a interessare anche il pubblico impiego, soprattutto per le qualifiche tecniche. Se fino a qualche anno fa il “posto fisso al ministero” era il sogno di tantissimi giovani, oggi non lo è più. La pubblica amministrazione, a caccia di personale specializzato per il Pnrr, si ritrova a fare i conti con numerose rinunce da parte dei vincitori di concorsi e con dipendenti che danno le dimissioni dopo qualche mese di lavoro. Il lavoro pubblico non è più così ambito come una volta: nel 2022 solo il 40% dei concorsi ha visto una copertura totale dei posti disponibili. Secondo i dati contenuti nella Relazione Formez, nel 2021-2022 due candidati su dieci hanno rinunciato al posto statale a termine, quasi uno su dieci a quello a tempo indeterminato. Stressati, costretti a carichi di lavoro intensi, con poche prospettive di carriera e stipendi bassi. Per non parlare di chi li chiama «fannulloni» e delle barzellette che girano sul loro conto.
Commissario e presidente: non ci sono più i mestieri di una volta
Non è un momento facile nemmeno per le Fondazioni. Da una parte, con la crisi economica e gli aumenti delle bollette che aggrediscono i redditi, cresce la necessità di una loro iniziativa in un settore di intervento tradizionale come il Welfare, proprio per evitare ulteriori sfaldamenti di una coesione sociale che è già a forte rischio. Dall’altra, mancano i presidenti. In Italia le fondazioni sono oltre 6mila e muovono oltre 40 miliardi. La maggior parte però sono piccole realtà territoriali che non fanno filantropia, cioè non finanziano progetti sociali, ma li gestiscono direttamente. Per quelle che contano si muove la politica, mentre quelle piccole di fatto non pagano.