La Cina torna a far parlare di sé sui mercati finanziari: pur essendo indubbiamente un player economico globale di primo livello, nelle ultime due settimane ha assistito all’abbandono dei suoi mercati da parte degli investitori esteri, dopo un anno di performance deludenti. Le azioni cinesi continuano a perdere terreno, le relazioni politiche con il resto del mondo sono sempre più complicate e l’eccessivo indebitamento di alcuni settori (vedi quello immobiliare, con il caso Evergrande) stanno gettando un’ombra sull’affidabilità finanziaria del Paese.
Problemi economici e finanziari
Nel 2021 il Dragone è stato uno dei mercati che ha registrato le performance peggiori: l’indice MSCI China è sceso del 22%, sottoperformando le azioni americane di quasi il 50%. Dunque, lo scorso anno, mentre i mercati globali volavano, le azioni cinesi hanno registrato performance poco brillanti, ma anche il 2022 non sembra essere iniziato sotto i migliori auspici, almeno per ora, dal momento che gli investitori stranieri hanno scaricato azioni cinesi per un valore record di 6 miliardi di dollari nei primi tre mesi dell’anno.
L’indice di riferimento “CSI 300” è, infatti, solo del 4% al di sopra rispetto al livello di fine 2019, quando furono segnalati i primi focolai di Covid-19 in Cina. E l’indice Nasdaq Golden Dragons, che riunisce i grandi gruppi tecnologici cinesi quotati a New York, è sceso di circa il 25% del suo valore, mentre l’S&P 500 statunitense e il Nasdaq Composite, incentrato sulla tecnologia, sono aumentati rispettivamente del 37% e del 52% circa.
A tutto ciò si devono aggiungere altri tre elementi:
- Il Dragone ha rivisto al ribasso, al 5,5%, la propria crescita per il 2022, poiché deve affrontare una triplice pressione dovuta a una contrazione della domanda, a problemi dell’approvvigionamento e all’indebolimento delle sue aspettative economiche.
- Nuove restrizioni anti-Covid: la città di Shanghai è stata paralizzata dalla sospensione dei trasporti pubblici e dal divieto imposto ai residenti di lasciare le proprie abitazioni e anche Shenzen, città chiave dal punto di vista produttivo, ha subito un blocco totale.
- La crisi del settore immobiliare, iniziata con Evergrande, si è estesa ad altre realtà del real estate.
La combinazione di questi elementi sta lentamente ma inesorabilmente frenando la crescita del Paese, tanto da far scappare diversi investitori esteri (come accaduto nell’ultimo mese).
Cina, tra grandi promesse e performance deludenti
È stata la crisi finanziaria del 2008 a porre la Cina tra i grandi protagonisti del sistema finanziario globale. In quell’occasione il governo del Paese aveva iniettato un’enorme quantità di denaro nel sistema per compensare il forte calo delle esportazioni. La Cina deteneva già il più grande stock di riserve valutarie al mondo ed è emersa dalla crisi consolidando la sua posizione di maggiore esportatore e seconda potenza economica globale. Oggi l’economia cinese si sta rapidamente avvicinando a quella degli Stati Uniti come motore chiave della crescita mondiale e si stima che proprio dalla Cina proverrà circa un quarto della crescita globale dei prossimi anni.
Il ruolo del Paese nella finanza globale e l’importanza della sua valuta, tuttavia, non sono ancora commisurati al suo peso economico. Tra le valute delle sei maggiori economie globali, lo yuan sta emergendo solo ora come potenziale valuta di riserva. Le altre – il dollaro USA, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica – vantano tutte un ruolo consolidato nella finanza globale.
Tuttavia, il renminbi sta iniziando a svolgere un ruolo significativo nelle transazioni commerciali internazionali e ad apparire nei portafogli di riserva delle banche centrali di tutto il mondo. È dunque probabile che diventi un’importante valuta di riserva entro il prossimo decennio, forse erodendo, senza sostituire, il predominio del dollaro.
Nonostante, dopo il 2008, le autorità cinesi abbiano riformato il sistema finanziario rendendolo meno regolamentato, in modo da sostenere meglio l’economia, lo Stato continua a svolgere un ruolo centrale nelle dinamiche economiche del Paese, talvolta ricoprendo una posizione scomoda, come nel caso Evergrande.
Caso Evergrande: la crisi del settore immobiliare
Il colosso dell’immobiliare Evergrande continua a dare molti grattacapi al governo cinese. Il tutto è iniziato verso la fine del 2021, quando l’eccessivo indebitamento (300 miliardi di dollari) ha reso impossibile per la società il pagamento di fornitori e dipendenti. In pratica, per finanziare la propria crescita, il colosso dell’immobiliare cinese aveva richiesto più prestiti di quanti fosse in grado di rifondere. Il risultato è stata la paralisi della società, che ha lasciato nel limbo oltre un milione di acquirenti di immobili non ancora costruiti (solo qualche giorno fa l’azienda ha annunciato di aver ripreso i lavori di costruzione lasciati in sospeso).
Il caso di Evergrande non è ancora risolto: la società non è fallita, ma proprio nelle scorse settimane è tornata a far parlare di sé, comunicando con una nota alla Borsa di Hong Kong che non sarebbe stata in grado di pubblicare i risultati finanziari del 2021 entro il 31 marzo, come richiesto alle aziende quotate. Il motivo? Il processo di auditing non sarebbe ancora stato completato. Il ritardo ha riacceso i riflettori sulla fragilità del settore immobiliare cinese. Evegrande non è, infatti, l’unica società in crisi. Basti pensare che nove sviluppatori, sempre quotati a Hong Kong, inclusi Evergrande, Ronshine e Shimao, non hanno dato l’annuncio della data di pubblicazione dei risultati per via delle dimissioni anticipate dei propri revisori, un segnale che qualcosa non sta procedendo nel verso giusto e che non sono da escludere problemi di rendicontazione.
Il caso Evergrande sintetizza i principali vizi strutturali del capitalismo cinese:
- il settore immobiliare è cresciuto in maniera ipertrofica ed è diventato troppo grande, anche rispetto alle dimensioni dell’economia cinese
- il ricorso al debito privato per finanziare la crescita economica è stato eccessivo, peraltro in un ambiente regolamentare non maturo.
Il tutto in un contesto in cui il governo di Xi sta intervenendo per ridefinire la scala di potere tra pubblico e privato e cercare di porre rimedio agli eccessi della crescita economica, limitando a livello regolamentare la possibilità di crescere a debito. Nel caso del settore immobiliare, lo Stato ha agito per cercare di frenare l’eccessiva leva finanziaria attraverso una serie di regole, che non sono servite ad evitare a Evegrande di finire sull’orlo del fallimento. La mano del governo cinese non si è, però, concentrata solo sul mondo dell’immobiliare: anche il comparto del tech è stato preso di mira, con l’obiettivo di limitarne il potere economico.
La guerra alle aziende tech continua
Xi Jinping non fa mistero della sua posizione verso le società tecnologiche cinesi che, nella sua visione, devono essere al servizio del partito comunista e della sua linea di crescita economica del Paese. Un atteggiamento molto diverso rispetto a quello che ha il governo USA nei confronti delle sue big tech, molto tutelate e considerate dei veri e propri “gioiellini” (oltre che degli strumenti per imporre la propria egemonia), liberi di crescere e ottenere sempre più potere economico.
Non si può dire lo stesso delle realtà tech cinesi: un esempio è rappresentato dal caso di Didi, app cinese per prenotare un’auto con conducente per brevi tratte, che nel luglio 2021 si è quotata a Wall Street raggiungendo un valore di 70 miliardi di dollari. Dopo lo sbarco sulla Borsa americana, la società avrebbe potuto ottenere altri finanziamenti. Il governo cinese ha però bloccato l’operazione per timore che l’azienda e i dati dei suoi utenti potessero finire in mano americana, determinando una perdita miliardaria per l’azienda e per gli investitori e scoraggiando altre società dal quotarsi negli Stati Uniti.
Come non ricordare poi la forte reazione contro Alibaba quando il governo ha bloccato la quotazione a Shanghai e a Hong Kong della sua divisione dedicata ai pagamenti digitali. La società è stata poi anche multata per quasi 3 miliardi di dollari per questioni di antitrust. A WeChat e ByteDance sono invece (per il momento) stati lanciati solo degli avvertimenti. Ci sembra evidente come la recente spinta del governo cinese rientri nell’obiettivo di rafforzare il potere politico nei confronti delle società quotate di maggiori dimensioni. Il messaggio è che a guidare il Paese è il partito comunista, mentre il capitalismo è solo un mezzo per raggiungere gli obiettivi della nazione. Da un punto di vista finanziario, questo posizionamento indebolisce le realtà tech, causando un calo nelle performance aziendali, come si può vedere nel grafico seguente, dove la linea nera rappresenta la performance delle società cinesi quotate a Hong Kong, che per la maggior parte appartengono al settore tech, rispetto ad altri indici globali.
Investire in Cina: rischio o opportunità inespressa?
Sul versante azionario, la regolamentazione e la “proprietà comune” sono ancora troppo invasive per fare della Cina un vero competitor degli USA in un’ottica di rendimento finanziario. Sul fronte obbligazionario, i titoli di stato cinesi non possono essere paragonati ai Treasury statunitensi in termini di beneficio di diversificazione, soprattutto nei periodi di stress. Il rischio valutario dell’investimento in obbligazioni cinesi rappresenta infatti uno scenario difficile da gestire, anche se lo yuan si è rivelato una valuta più stabile rispetto a quelle della maggior parte delle economie emergenti.
Tuttavia, grazie a:
- un ciclo economico disallineato rispetto a quello occidentale;
- una bassa correlazione tra i Govies cinesi e il resto degli asset rischiosi;
- un interessante rendimento atteso,
le obbligazioni cinesi sono un asset da valutare con attenzione, anche per la loro crescente importanza in molti benchmark obbligazionari. In un solo anno, le obbligazioni denominate in yuan sono diventate la terza più grande allocazione nell’indice di riferimento globale per il reddito fisso (il Bloomberg Barclays Global Aggregate Index). È dunque probabile che questa tendenza attirerà sempre più flussi di investimento su questa asset class.
Le obbligazioni cinesi offrono vantaggi sia in termini di ritorni, con rendimenti che si collocano in una fascia intermedia tra i bond dei mercati sviluppati e quelli dei mercati emergenti, che di diversificazione. Storicamente hanno mostrato una correlazione relativamente bassa con le obbligazioni governative dei paesi sviluppati.
Infine, a seguito della guerra scoppiata in Ucraina, i rapporti del gigante asiatico con l’Occidente sono tutt’altro che chiari. Ci sono poche probabilità che le sanzioni contro la Russia possano essere estese anche alla Cina, se non nel caso in cui il Dragone si sbilanciasse definitivamente a favore di Putin. Ci sembra dunque poco probabile che gli strumenti finanziari cinesi, data la loro importanza nel panorama globale, possano essere colpiti come accaduto con quelli russi. Tuttavia sottolineiamo ancora una volta l’importanza di mantenere una esposizione controllata e di investire in maniera diversificata, controllando i rischi di portafoglio.