Perché leggere questo articolo? Le nomine lo insegnano, avere i voti è una cosa, gestire il potere un’altra. Giorgia Meloni lo ha capito con la scelta dei manager delle partecipate. In cui sono tornati in pista big come Giorgetti e Letta. E si è dimostrato che Lega e Forza Italia, al contrario di Fratelli d’Italia, hanno dimestichezza col potere.
Giorgia Meloni con le nomine ne ha preso atto. Fratelli d’Italia non ha ancora una vera classe dirigente. O meglio non ne ha una di produzione propria. Fdi sa cooptare o promuovere figure legate agli esponenti più di peso del suo cerchio magico. Non, invece, portare nomi organici e d’area a posizioni di peso. Il caso Anastasio e la lettera delirante del manager d’area hanno per ora chiuso ogni velleità di promozioni affrettate. Capaci di portare danni d’immagine al governo.
Nomine, l’asse Giorgetti-Letta spinge la mediazione
Al contrario sulle nomine Lega e Forza Italia hanno dimostrato di aver contezza del tema della classe dirigente. Giancarlo Giorgetti e Gianni Letta sono stati in fin dei conti i deus ex machina delle nomine. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha gestito, da regista, i tempi e i modi del gioco di definizione delle partecipate. E con Silvio Berlusconi in condizioni critiche in ospedale e Forza Italia nel caos, l’ex sottosegretario di Palazzo Chigi è tornato in campo.
Si vede la loro firma dietro il ticket formato da Paolo Scaroni e Flavio Cattaneo per Enel. Tale schema si conferma nella bocciatura di Stefano Donnarumma per la più capitalizzata delle partecipate, come del resto indicava l’umore degli investitori istituzionali, e nell’aut-aut imposto a Meloni sui fedelissimi. La premier, in altre parole, ha dovuto sacrificare lo stesso Donnarumma a Terna per avvicendarlo, in prospettiva, con l’ad di Nokia Italia Giuseppina Di Foggia, vicina a Fdi. E per Donnarumma dovrà riservare una poltrona ad hoc a Cdp Venture Capital.
Eni, l’ascesa di Zafarana spinta da Colle e asse Lega-Fi
C’è tutto Gianni Letta anche nella promozione di Giuseppe Zafarana al ruolo di presidente di Eni. Di fronte alla prospettiva di un Descalzi uomo solo al comando, la scelta del comandante uscente della Guardia di Finanza per il Cane a sei zampe va nella direzione indicata dallo Stato profondo e dal Quirinale. Ovvero aumentare lo scrutinio securitario su Eni, stabilizzare il gruppo di fronte alle accuse di chi lo vedeva appiattito sulla figura dell’ad, superare la debole presidenza di Lucia Calvosa.
Una mossa che fa contenta la Lega, che chiedeva discontinuità almeno alla presidenza. E che dimostra come Forza Italia, via Letta, conti ancora. E soprattutto accelera la partita per la successione a Caserma Piave, che Meloni dovrà affrontare mediando a tutto campo.
Su Leonardo Meloni “passa” grazie a Crosetto
Meloni, partita lunga in volata con l’ambizione di essere pigliatutto, nelle ultime 24 ore della partita ha dovuto mediare. E la premier si deve accontentare del risultato su Leonardo, ove passano nomi graditi a lei. A cui però arriva grazie alla mediazione di Guido Crosetto. Ministro della Difesa e stratega di Fdi, ma figlio di un’altra epoca e di un’altra visione della politica che non è quella dei giovani rampolli di Fdi. Meloni alla prova decisiva si consulta con il co-fondatore del suo partito e titolare della Difesa.
Dal cilindro spuntano da un lato l’ambasciatore Stefano Pontecorvo come presidente. Dall’altro Roberto Cingolani, neo-ad stimato da Meloni ma che è stato proiettato a notorietà nazionale in qualità di Ministro del governo Draghi. Dove Lega e Fi c’erano. Fdi invece no.
I nuovi di Fdi non toccano palla nella partita nomine
Sulle nomine i “grandi vecchi” Giorgetti e Letta giocano non contro, ma di sponda con Palazzo Chigi, in fin dei conti. Tolgono le castagne dal fuoco a Meloni, che si era spinta troppo oltre nel suo desiderio di stravincere. Ponendo il governo di fronte al rischio di un’instabilità in prospettiva fatale. La loro mediazione felpata mostra che sono Lega e Forza Italia i depositari della cultura del governo nella maggioranza, o al massimo i figli della vecchia scuola come Crosetto. Il trio Giorgetti-Letta-Crosetto segna la grande sconfitta dei giovani rampolli di Fdi. Alla cui promozione Meloni, ragionevolmente, rinuncia. In secondo fila tutti gli astri nascenti, non pervenuti politici come Francesco Lollobrigida, Andrea Delmastro Giovanni Donzelli: sulle nomine Meloni non fa toccare palla ai suoi sodali storici. Si smarca da questo destino solo Giovanbattista Fazzolari, sussurratore e braccio destro operativo del capo del governo.
Tra carni sintetiche, grilli, anglicismi e inciampi come il caso Delmastro-Donzelli e le dimissioni di Augusta Montaruli dal Ministero dell’Università la corsa della “generazione Atreju” che cantava ai forum giovanili della destra “il domani appartiene a noi” è stata finora politicamente complessa. E segnata più da battaglie identitarie contro non meglio precisati “diktat della Sinistra” italianed europea che da una volontà di cambiare il Paese. Meloni, perlomeno, ha capito che al governo non c’è più il Partito Democratico e in un certo senso la ricreazione dell’opposizione è finita. Sulle nomine ha fatto inizialmente il passo più lungo della gamba. Poi ha mediato per consolidarsi con chi una classe dirigente ce l’ha. Un passo indietro, apparentemente. Un’ammissione di fragilità interne al suo partito, indubbiamente. Ma, pragmaticamente, l’unica scelta possibile. Per durare e poter contare. In asse coi poteri e non contro di essi.