Dovevano usare il “machete”, ma sulle nomine Giorgia Meloni e il governo sono stati moderati. La premier vuole entrare nel sistema, non fargli la guerra. E per ora vince imponendo i suoi nomi.
Giorgia Meloni sulle nomine alle partecipate si prende tutto, compreso forse il trofeo più importante: la decisiva legittimazione del sistema. Il partito del Quirinale, il mondo dei boiardi di Stato, le sfere delle cerchie di potere che orbitano attorno a Palazzo Chigi e tifano stabilità hanno di che festeggiare.
Donnarumma, Descalzi, Cingolani: Meloni sceglie la continuità
I tre amministratori delegati che dopo il lungo processo decisionale Meloni ha promosso su Enel, Eni e Leonardo sono i suoi favoriti. C’è l’alleato Stefano Donnarumma, che sarà promosso da Terna a Enel. Ospite a festival e convention “fratelliste”, Donnarumma è da tempo il manager preferito di Giorgia Meloni.
Non manca il confermatissimo Claudio Descalzi, pronto a diventare il primo ad di Eni con quattro mandati e oltre nove anni di servizio, superando Paolo Scaroni e Enrico Mattei. Padre fondatore del Cane a sei zampe, quest’ultimo, a cui è intitolato quel “Piano Mattei” di autonomia energetica che Meloni ha pensato e Descalzi vuole mettere a terra.
A Leonardo, infine, va Roberto Cingolani. Successore del manager di centro-sinistra Alessandro Profumo a Piazzale Montegrappa e “draghiano” doc. Cingolani era il favorito di Meloni tra i ministri del governo di unità nazionale a cui Fdi era all’opposizione ed è stato nominato consigliere del governo sull’energia dopo l’ascesa dell’attuale esecutivo.
Meloni ha tirato dritto, giocando di sponda con il Ministero dell’Economia e delle Finanze di Giancarlo Giorgetti, oltre le domande di discontinuità chieste dalla Lega in testa e da settori di Fratelli d’Italia a seguire. Il “caso Anastasio” ha fatto muovere Meloni coi piedi di piombo. Non ha toccato palla la “generazione Atreju” giunta al governo con Meloni al coro di “il domani appartiene a noi!” che si è trovata tagliata fuori dalla vecchia guardia.
Un passato che non passa
Descalzi è stato nominato nel 2014 da Matteo Renzi all’Eni; Donnarumma ha conosciuto l’inizio della sua scalata venendo scelto a Terna nel 2020 da Giuseppe Conte e dal Movimento Cinque Stelle; Cingolani è stato direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia creato dai governi di Silvio Berlusconi, è stato stimato molto da Beppe Grillo e Matteo Renzi prima e da Mario Draghi poi. C’è un sistema consolidato alla cui ruota Meloni si è posizionata. E in asse con le cui indicazioni ha costruito la sua ascesa.
Tra il partito americano, che guardava a Gian Piero Cutillo, e quello europeo della Difesa, vicino all’ad di Mbda Lorenzo Mariani, su Leonardo Meloni ha imposto il suo favorito, come nome di compromesso. Eni rimane feudo personale di Descalzi, uomo solo al comando della politica energetica italiana. Enel si conferma “palestra” per i manager favoriti del leader politico e per l’ascesa al gotha statale di figure gradite alla stagione di governo, come è oggi il caso di Donnarumma.
Meloni studia l’aggancio al sistema
Maggiore la collegialità alla base, diversi i nomi girati in queste settimane, ma chiaro il concetto: anche il centrodestra conservatore a guida Meloni non viene dalla Luna. E sulle nomine si trova a dover gestire pesi e contrappesi di vario tipo, dai rapporti internazionali delle aziende al ruolo di garanzia del Colle su una parte fondamentale dell’apparato a partecipazione pubblica. Meloni vuole essere parte di questo sistema, legittimamente, non muovergli guerra.
I rapporti di forza, per ora, la premiano. Primo round a Palazzo Chigi e al Mef nel gioco delle nomine. Ora la partita si sposta sui presidenti delle partecipate e sulla scelta degli ad rimanenti delle aziende di vertice: Poste Italiane e Terna, lasciata libera da Donnarumma. Qui capiremo se Meloni vuole accontentarsi di vincere o mira a stravincere. Anche contro la volontà del suo stesso partito di imporre le famose figure “d’area” di una classe dirigente fratellista che ancora non si è strutturata.