Perché leggere questo articolo: Nelle nomine delle imprese pubbliche, chi deve guidare il processo? L’industria o la fedeltà politica? All’atto pratico le due sfere interagiscono profondamente
Le nomine alle partecipate pubbliche si sono concluse e si possono trarre giudizi di prospettiva. L’ipotesi di una discontinuità strutturale inizialmente pensata dal governo Meloni si è risolta in un ricambio di vertici condizionato da precise esigenze di sistema.
Ad esempio, la Lega ha sicuramente ottenuto il risultato di un graduale ricambio alle presidenze di Enel, Eni, Leonardo e Poste. Ma ha dovuto incassare, al contempo, la riconferma del poco gradito Claudio Descalzi al Cane a sei zampe.
Nomine e scenari
Giorgia Meloni voleva portare Stefano Donnarumma a Enel ma ha visto la sua ambizione di promuovere l’ad di Terna scontrarsi contro il “niet” dei fondi azionisti. E ha infine dovuto spostare verso Cdp Equity il manager a lei più gradito per piazzare a Terna Giuseppina Di Foggia. A sua volta pescata non come “amica” di Fratelli d’Italia ma piuttosto per la lunga esperienza da ad di Nokia Italia.
Su Leonardo, poi, la politica “azionista” ha promosso Roberto Cingolani, in passato già capo della ricerca di Piazzale Montegrappa, a amministratore delegato. Ma con il controllo stretto del direttore generale vicino a Guido Crosetto, l’ad di Mbda Italia Lorenzo Mariani.
In sostanza, logiche politiche e logiche economiche si compenetrano nella decisione sui vertici delle partecipate. E questo può creare diversi indirizzi e obiettivi. Quando le logiche industriali dominano sulla razionalità politica, sicuramente i gruppi possono esserne giovati in termini di efficienza operativa. Ma questo può danneggiare la capacità del governo di esercitare il suo scrutinio sulle operazioni e di inserirle in una strategia coerente. Viceversa, una mera logica di occupazione delle poltrone può creare disastri operativi.
Il governo Meloni ha in quest’ottica operato una scelta di compromesso. Sì ai nomi “competenti”, ma d’area. Pensiamo ad esempio a Paolo Scaroni, neo-presidente di Enel che da ex ad di Eni fu un protagonista dell’era berlusconiana. O allo stesso Cingolani, a lungo direttore di quell’Istituto Italiano di Tecnologia frutto dell’operato di Giulio Tremonti da Ministro dell’Economia. Alcune scelte sono parse, invece, più “obbligate”. Prima fra tutte la riconferma di Descalzi, vero e proprio ministro-ombra che guida lo “Stato nello Stato” di San Donato Milanese.
Draghi e Conte, due estremi di metodo
In quest’ottica, quando la politica vuole imporre eccessivamente la sua visibilità o il suo ruolo apicale si rischia di creare situazioni di discontinuità o crisi operativa, come fatto dal governo di Mario Draghi accelerando la discontinuità in Cassa Depositi e Prestiti nel 2021, inaugurando l’attuale situazione confusionaria. O come accaduto l’anno scorso in Snam e Fincantieri, quando al netto del nome dei successori la messa alla porta di Marco Alverà e Giuseppe Bono parve più un atto segnaletico di primato della politica che una mossa giustificata da ragioni industriali.
Viceversa, avendo la politica industriale come quella dei palazzi orrore del vuoto, il ritiro dello Stato-azionista dà spazio ai potentati industriali. Il 2020 è stato l’anno cardine per tale prospettiva. Durante la pandemia il governo Conte II congelò i rinnovi degli ad di Eni, Enel, Leonardo e Poste, promuovendo dunque il consolidamento dei blocchi di potere pre-esistenti. E portando tali società a una maggiore autonomia nei settori di riferimento.
In quest’ottica la scelta di compromesso su certi nomi del governo Meloni aiuta a rispondere a questa domanda. Né i risultati industriali, Bono e Alverà insegnano, né la semplice fedeltà politica, la continuità al cambiare dei governi di Descalzi conferma, sono di per sé condizioni sufficienti. Ma indirizzo politico e gradimento del decisore da un lato e capacità industriali dei manager dall’altro devono compenetrarsi. Pena la creazione di mix inadatti a gestire strutture aziendali tanto complicate.
Draghi e Meloni, il ritorno della vecchia guardia
Per un sistema di governo la stagione delle nomine serve in tal senso a marcare, in diversi casi, un cambio di prospettiva. Il governo Meloni ha in un certo senso confermato quanto accaduto con l’era Draghi. Esaurita la spinta di novità rappresentata dal governo Renzi prima e da quello gialloverde poi, con conseguente emersione di volti nuovi ai vertici delle partecipate, con Draghi la tutela è tornata in mano ai “ragazzi del Novantadue“.
Gli ultimi capitani del sistema-Paese che avevano vissuto la turbolenta transizione tra la Prima e la Seconda Repubblica. Alcuni di questi, come Gianni Letta e Paolo Scaroni, sono rimasti in sella nel centrodestra liberalconservatore a guida Meloni. Il quale ha scelto di non strappare con il sistema pre-esistente, consolidatosi nel binomio tra politiche e logiche industriali.
Le nomine tra industria e geopolitica
Questo binomio è oggi più spostato verso l’industria laddove lo spazio di discontinuità è ridotto dal legame tra geopolitica e politica industriale. Pensiamo, ad esempio, a Leonardo e Eni. Altrove, invece, come in Enel, i decisori hanno più spazio. Ma la competenza dei manager scelti resta sempre la Stella Polare.
Come ha ricordato Alessandro Aresu su Pandora, del resto, il peso delle partecipate è strategico per l’intera economia: “le società controllate dal Ministero dell’Economia e dalla Cassa Depositi e Prestiti dominano Piazza Affari, una borsa rimasta piccola rispetto alle omologhe europee per via dello scarso numero di grandi e medie imprese quotate. Ecco dunque il paradosso delle privatizzazioni: il sistema dei partiti non esiste più ma le nomine continuano ad esistere. Non solo: sono diventate molto più importanti”. Pubbliche si. Ma prima di tutto imprese. Di queste ogni governo deve essere conscio. O è obbligato a diventarlo per necessità di sopravvivenza.