La pandemia, che ha sconvolto gli equilibri delle più consolidate società contemporanee, potrebbe avere effetti ancor più roboanti sulle principali economie in via di sviluppo del pianeta.
L’ondata Covid-19 su quattro paesi Brics
Influenza cinese prima, poi le varianti sudafricana, brasiliana e infine indiana: il Covid-19 sembra essersi accanito su quattro dei cinque BRICS. Dietro all’acronimo, coniato dagli economisti di inizio millennio, ci sono le iniziali di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Soprattutto c’è un’associazione informale ma in fase di rodaggio, che prima della pandemia rappresentava il 40% della popolazione e il 25% del PIL globale.
La struttura commerciale, incentrata su una serie di accordi bilaterali ma dalla proiezione globale per i tassi di crescita demografica ed economica, aveva fatto pensare a una possibile alternativa al sistema basato sul dollaro. Un’analisi più dettagliata mostrava però segnali di incrinature interne ai paesi -e di conseguenza al consorzio- già prima della pandemia.
La crisi politica in Brasile e quella sociale in Sud Africa hanno costretto i due paesi ad alzare per primi bandiera bianca nella competizione per emergere. La Russia è rimasta in mezzo a un guado fatto di sanzioni e tensioni con Stati Uniti e Unione Europea. Solo la Cina ha rispettato le aspettative, andando oltre le previsioni di inizio millennio per diventare una superpotenza globale ormai in grado di competere con gli Usa. Non resta che analizzare la vera incognita del consorzio: l’India di Narendra Modi, sino a qui eterna incompiuta che guarda al vicino con cui condivide quasi 4mila chilometri caldamente contesi nei decenni.
Con buona probabilità il virus potrebbe aver agito da acceleratore di dinamiche economiche di lungo corso e fino ad ora apparentemente impercettibili che stanno cambiando le fondamenta dei due colossi asiatici. Se la Cina in futuro si accinge a non essere più fabbrica del mondo, la palma del paese leader dell’industria manifatturiera globale è un chiaro obbiettivo dell’India.
Paesi Brics, l’incognita India di Modi
Dal 2000 l’India ha dato l’impressione di aver sperperato gran parte del proprio potenziale, restando inchiodata ai blocchi di partenza. L’Elefante indiano avrebbe potuto seguire il modello cinese, imitando il Dragone per diventare una mecca di business e grandi affari, con il vantaggio competitivo di essere un regime democratico. Al contrario del miracolo cinese, incentrato su infrastrutture, investimenti e produzione, l’India mostra livelli mediocri negli indicatori cruciali per lo sviluppo economico. Negli anni ’70 i due paese avevano PIL identici, oggi quello cinese e tre volte quello indiano.
Le politiche di autosufficienza nazionale, promosse da Modi sull’onda del dilagante nazionalismo anti-cinese, hanno peggiorato la dipendenza del paese nei confronti dei prodotti made in Cina. Ecco che per il figlio del venditore di tè divenuto premier nel 2014 e rieletto in pompa magna due anni fa, arriva il momento della resa dei conti con l’ingombrante vicino.
Durante i cinque anni del primo governo Modi, 7% di crescita annuale aveva portato più volte l’economia indiana a strappare alla rallentante Cina la maglia di economia a maggior crescita al mondo. Accelerazione in parte oscurata dall’inattendibilità delle statistiche ufficiali e in parte dall’incapacità di mantenere le promesse elettorali. La disoccupazione è salita al 6%, il peggior dato da quasi 50 anni.
Un annoso problema che da sempre martoria la società indiana è la disuguaglianza, che inficia pesantemente anche l’economia del paese. La concentrazione della ricchezza impedisce la creazione di un sistema economico competitivo ed efficiente e il modello produttivo del paese rimane confusionario. All’eccellenza di settori all’avanguardia, come la farmaceutica e l’elettronica (l’India è la prima produttrice al mondo di prodotti a basso o medio valore aggiunto e semilavorati al mondo), fanno da contrappeso il predominio di un’agricoltura a bassissimo tasso tecnologico e un’industria di base di scarsa qualità.
India nuovo hub della manifattura mondiale?
Così a marzo, nella calma apparente prima del proliferare della variante indiana, il premier aveva annunciato il Production-linked incentive, un piano di investimenti per il settore manifatturiero da 520 miliardi di dollari, con cui Modi punta a far salire in cinque anni l’India sul trono che la Cina è in procinto di abdicare, quello di “fabbrica del mondo”. L’obiettivo è quello di industrializzare l’India, facendone un hub mondiale della manifattura. Il PLI è solo l’ultimo step del “Make in India”, il mastodontico piano – in salsa cinese – lanciato nel 2014 dal premier per incentivare gli investimenti e attrarre capitali esteri. Ma i risultati non sembrano ancora pagare: malgrado la crescita di investimenti diretti esteri, il manifatturiero si attesta al 18% del Pil, solo 4 punti in più rispetto all’avvio del programma nel 2014.
In 30 anni il paese dovrebbe crescere di 300 milioni di abitanti, raggiungendo quota 1.7 miliardi di anime e staccando ampiamente proprio la Cina, attualmente il paese più popoloso del mondo con 20 milioni di abitanti in più del miliardo e 366 milioni di indiani. La sfida indiana consisterà nel fornire un adeguato standard di vita a quante più persone possibili, cercando al contempo di creare una solida classe media da posizionare al centro del percorso di crescita nazionale.