“Tornare alla normalità”. Oppure “tornare ad abbracciarci”. È il genere di frasi che ripetiamo da un anno mentre elucubriamo su piani vaccinali e orari di coprifuoco. C’è però un pensiero ricorrente (e per niente stupendo) che riecheggia tra alcuni scienziati. Uno scenario terrificante ma sempre più plausibile, nonostante le campagne vaccinali: che la normalità – il pre-Covid – non ritorni più. Almeno per qualche anno.
La chiamano “pandemia perpetua” e si manifesterebbe a causa di due fattori. Il primo è quello delle cosiddette “varianti” del virus, le sue mutazioni che si sviluppano in diverse aree del mondo diventando più pericolose per diverse fasce di popolazione. Il secondo è dato proprio dai vaccini. Sì, perché le nazioni ricche hanno fatto man bassa dei vaccini escludendo interi continenti (l’Africa tra tutti), dove il virus potrà circolare indisturbato, evolvendosi.
Lo scenario è quindi chiaro: da una parte il virus si evolve già da tempo; dall’altra i vaccini acuiscono il divario tra aree protette e meno protette del virus. Conseguenza: aumentano le “varianti” e quindi la possibilità che almeno uno di queste mutazioni sia resistente ai vaccini in utilizzo.
Oppure, come spiega Bloomberg, il caso sudafricano, dove “un gruppo che era stato infettato con un ceppo dimostrava di non essere immune alla sua versione mutata, tornando a infettarsi”.
Come uscirne? La risposta sta comunque nei vaccini. Le aziende farmaceutiche sono al lavoro su nuovi vaccini, soprattutto quelli “a Rna” (Pfizer e Moderna), fondati su una tecnologia che permette aggiornamenti più veloci. Ma questo non basta: serve poi aprire i vaccini, eliminare i brevetti e permettere a tutti – ricchi e poveri – di produrre vaccini, in modo da sciogliere il nodo più pericoloso, quello del divario vaccinale tra nazioni.
Ne va della salute di miliardi di persone. E soprattutto è l’unico modo per fare in modo che la pandemia abbia davvero una fine.