Perché questo potrebbe interessarti? Per capire come sul petrolio, oltre che sul gas, l’Europa sia la grande perdente della partita globale dell’energia. In cui i cartelli di produttori si muovono per condizionare il mercato secondo le loro priorità.
Nel grande gioco dell’energia i timori per l’inverno hanno focalizzato tutta l’attenzione europea sul gas nel pieno della “guerra” sanzionatoria con la Russia, ma non bisogna dimenticare il fronte del petrolio. E proprio la recente riunione dell’Opec+, la tavola rotonda che riunisce i maggiori produttori del cartello Opec e Mosca, ha portato alla programmazione di tagli della produzione per 2 milioni di barili al giorno. Una mossa energica che porta al rialzo i prezzi del greggio, risaliti dopo la graduale discesa dal picco di 120 dollari al barile iniziata a giugno e rimbalzati sopra i 90 dollari, e ha spiazzato l’Occidente, mettendo in ansia gli Stati Uniti e aumentando l’apprensione dell’Europa.
La guerra del petrolio
Al centro dell’accordo sul petrolio l’asse tra l’Arabia Saudita e la Russia. Riad e Mosca hanno intensificato la ricerca di tagli alla produzione per fermare il calo dei prezzi del petrolio. Gli Stati Uniti volevano limitare le entrate petrolifere della Russia sperando che tale accordo non si concretizzasse.
Proprio la scorsa settimana, Brett McGurk e Amos Hochstein, due alti funzionari dell’amministrazione Biden, hanno visitato l’Arabia Saudita nell’ultimo di una serie di incontri bilaterali volti a dissuadere il principe Mohammad bin Salman, recentemente nominato primo ministro, dal procedere sulla strada tracciata.
L’amministrazione Biden ha criticato i tagli, paragonabili al 2% dell’offerta globale, definendoli una “decisione miope” in un momento in cui “mantenere un approvvigionamento globale di energia è di fondamentale importanza”. La portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha detto ai giornalisti dell’Air Force One che era “chiaro” che l’Opec + si stava “allineando con la Russia”. Il ministro dell’energia dell’Arabia Saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, ha respinto i suggerimenti secondo cui i tagli del cartello avrebbero danneggiato i consumatori, sostenendo che le azioni del gruppo avevano lo scopo di incoraggiare gli investimenti a lungo termine nella produzione di petrolio.
L’asse Mosca-Riad
La decisione del cartello è arrivata ore dopo che i paesi dell’Unione Europea hanno accettato un piano degli Stati Uniti per imporre un tetto ai prezzi delle esportazioni di petrolio russo, uno sforzo da parte dei paesi occidentali per abbassare i prezzi del greggio e del carburante. L’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo membri dell’Opec temono che questo piano ridurrebbe i prezzi del petrolio su tutta la linea e potrebbe anche essere usato contro di loro in futuro.
Naturale, dunque, la convergenza con Mosca, con la quale la logica del cartello ha prodotto intese strutturali indipendentemente dal giudizio politico sull’invasione dell’Ucraina. I membri Opec si sono schierati con la Russia in nome della gestione protettiva del mercato petrolifero mentre i consumatori di tutto il mondo stanno combattendo l’inflazione e l’aumento del costo della vita. Il mercato è giudice inclemente e spesso tutt’altro che equo, ma va sottolineato che quello che Russia e Opec promuovono sul campo del petrolio è uno sfruttamento intensivo di logiche legate a strumenti finanziari e di governance di matrice puramente occidentale: è infatti occidentale il duo Brent-Wti che rappresenta il benchmark di prezzo, lo sono le piazze dove il greggio è quotato, lo è in ultima istanza la logica del cartello.
La Russia e il boom delle entrate da petrolio
Soprattutto, Russia e Arabia Saudita, e l’Opec al loro traino, hanno mostrato che il Re è nudo e che l’isolamento internazionale di Mosca perorato dall’Occidente è difficile da constatare nei fatti. Il segretario generale dell’Opec Haitham al-Ghais dal Kuwait ha applaudito il ruolo della Russia nell’accordo sostenuto che il gruppo stava fornendo “sicurezza” e “stabilità” per i mercati energetici. “Tutto ha un prezzo”, ha detto. “Anche la sicurezza energetica ha un prezzo”, ha aggiunto, stigmatizzando il piano di tetto ai prezzi del petrolio. Cosa succederà ora? Helima Croft, ex analista della CIA e responsabile della ricerca sulle materie prime presso RBC Capital Markets, ha detto che la Russia probabilmente rivolgerà la sua attenzione a sconvolgere i mercati petroliferi, avendo già tagliato la maggior parte delle sue forniture di gas all’Europa.
Soprattutto, Mosca può continuare a controllare i cordoni della borsa; e arricchirsi facendo il prezzo del petrolio che più le conviene sia verso i Paesi ostili che i nuovi mercati di riferimento. Che sono stanziati soprattutto in Asia. Secondo il vice primo ministro russo Alexander Novak, le esportazioni di petrolio russo sono aumentate del 12% nei primi cinque mesi del 2022. Anche dopo sei cicli di sanzioni occidentali imposte alla Russia, il valore delle esportazioni di energia nel 2022 rimane superiore a quello del 2021. Poiché le sanzioni occidentali limitavano le esportazioni dalla Russia, gli acquirenti asiatici hanno approfittato dei costi relativamente più bassi del petrolio. Dall’invasione, le forniture di greggio russo alla Cina sono aumentate a 2 milioni di barili al giorno; con un aumento del 55% su base annua nel maggio 2022.
Janis Kluge, senior associate presso l’Istituto tedesco per gli affari internazionali e di sicurezza, ha dichiarato: “L’impatto delle sanzioni sull’economia russa è molto disomogeneo. In alcuni settori, è stato catastrofico, come l’industria automobilistica. Il settore petrolifero è relativamente indenne per ora”.
La spaventosa bolletta europea
Il Center for Research on Energy and Clean Air (Crea) ha stimato che la Russia ha guadagnato 158 miliardi di euro di entrate dalle esportazioni di combustibili fossili nei primi sei mesi della guerra (dal 24 febbraio al 24 agosto). L’UE ne ha importato il 54 per cento, per un valore di circa 85 miliardi di euro. Le esportazioni di combustibili fossili hanno contribuito con circa 43 miliardi di euro aggiuntivi rispetto al 2021 al bilancio federale della Russia dall’inizio dell’invasione, contribuendo a finanziare i crimini di guerra in Ucraina. Il maggiore importatore di combustibili fossili è stata l’Ue (85,1 miliardi di euro); seguita da Cina (34,9 miliardi di euro); Turchia (10,7 miliardi di euro); India (6,6 miliardi di euro); Giappone (2,5 miliardi di euro); Egitto (2,3 miliardi di euro); e Corea del Sud (2 miliardi di euro).
L’Ong Europe Beyond Coal stima che la bolletta energetica europea sia ancora più alta, superando da febbraio quota 102 miliardi di euro. Di questi ben 53 miliardi imputabili al petrolio, prima fonte di entrate delle casse russe. Dunque si capisce bene quale sia l’area di mondo maggiormente colpita dalle manovre russo-saudite sui prezzi petroliferi.
Il doppio gioco Usa
Dal canto suo, Washington protesta apertamente contro l’Opec. Ma al di là dell’impatto sulle elezioni di Midterm in favore dei Repubblicani, sul fronte strategico la manovra russo-saudita può fornire agli Usa un gancio ulteriore per spostarsi dalla dipendenza politica dal contesto mediorientale; spesso ridottosi a una parte inefficace per il bilancio strategico degli Usa. E dal canto loro gli Usa avrebbero una mossa per rafforzare l’offerta mondiale di petrolio entrando a gamba tesa sulla Russia: aprire alla fine delle sanzioni energetiche contro l’Iran e riportare nel mercato il suo greggio. Ma Washington, anche prima delle recenti proteste interne a Teheran, ha sempre nicchiato. Il motivo? La contrarietà saudita a un completamento di una seconda edizione dell’accordo sul nucleare iraniano e i timori di attori come Emirati Arabi Uniti e Israele. Ragion per cui nei prezzi del petrolio c’è anche, sempre e comunque, una mano Usa.
Un’ultima annotazione. Prezzi alti del petrolio fanno volare le prospettive economiche dei produttori Usa di petrolio di scisto e shale oil; che necessitano di prezzi ampiamente superiori ai 70-80 dollari al barile per operare. Biden, presidente ambientalista a parole, non può permettersi di dirlo, ma sostanzialmente per l’interesse energetico americano ha bisogno anche di prezzi non eccessivamente bassi. British Petroleum, non a caso, subito dopo l’accordo Russia-Arabia Saudita ha lanciato un alert sulle opportunità di investimento; indicando proprio l’America del Nord come territorio da tenere d’occhio per lo shale oil.
Chi ci perde completamente, in quest’ottica, è l’Europa. Che potrà scegliere tra petroli di varia provenienza ma di cui controlla sempre meno i flussi e le dinamiche di prezzo. Andando incontro al rischio di un altro shock sistemico dopo quello sul gas. Causato, tra le altre cose, anche dalla malcelata convenienza degli Usa per alcune mosse del loro rivale strategico numero uno.