Uno studente su due esce dalla scuola dell’obbligo senza avere le competenze adeguate. Questa è la situazione fotografata dai risultati dei test Invalsi, l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e Formazione, l’ente che valuta il livello della scuola italiana. Ma cosa ci dice realmente questo indicatore della valutazione scolastica, finito al centro del dibattito tra chi lo esalta e chi lo scredita? Cristiano Corsini, professore all’Università di Roma Tre di docimologia, branca della pedagogia che studia i metodi di valutazione, prova a fare chiarezza su questo test.
Professor Corsini, i risultati dell’Invalsi devono preoccuparci?
Non più di quanto avrebbero dovuto preoccuparci le rilevazioni che facciamo da 50 anni a questa parte: Invalsi, Ocse e Iea. Da mezzo secolo forniscono le stesse identiche indicazioni: la scuola elementare nel complesso tiene, mentre dalle medie iniziano problemi. Queste difficoltà hanno tre caratteristiche: una stretta correlazione tra rendimento e caratteristiche socioeconomiche delle famiglie; sono territoriali (al sud abbiamo livelli di rendimento inferiori); e infine sono aggravate dalla segregazione scolastica nella secondaria di II grado, con gli studenti di un certo stato socioeconomico che scelgono certe scuole.
Sempre la stessa storia?
Insomma, è la solita storia da 50 anni, ma ogni volta vengono ampliati gli elementi negativi. Spesso vengono travisati alla ricerca di titoli a effetto: quando un giornalista scrive “Ocse, solo un quindicenne su venti è in grado di capire un testo” è lui stesso a dimostrare di avere problemi di comprensione di un elaborato… Questa retorica allarmistica non aiuta, anzi, il ripetersi del catastrofismo ogni anno è il modo migliore per evitare di affrontare il problema investendo seriamente nell’istruzione.
Viene a questo punto da chiedersi se Invalsi sia un sistema efficace per valutare la preparazione dei nostri studenti?
Non esiste una risposta univoca a questa domanda. Le prove Invalsi ci forniscono alcuni dati sul livello di conoscenze e abilità nella nostra popolazione studentesca: sono dati utili, ma non scambiamoli per altro. Per esempio, se per “nostri studenti” intendiamo i singoli studenti, allora no, l’Invalsi non è efficace. Essendo soggette a errore come tutte le misure che si basano sulla statistica, sul singolo studente sono poco affidabili, mentre l’errore si riduce a livello nazionale, regionale o di istituto.
Dove sta l’errore di valutazione?
Le prove Invalsi hanno pregi e difetti, ma continuano a essere scambiate per quello che non sono: si sente parlare di “crisi delle competenze”, peccato che il test rilevi conoscenze e abilità ma non le competenze. Questo corto circuito è legato al fatto che il Ministero dà all’Invalsi un mandato impossibile: misurare le competenze con delle prove oggettive che è un’assurdità logica, pedagogica e docimologica. L’Invalsi non è sufficientemente autonomo e dunque fa quel che può.
Esistono criteri per stabilire, se non una causalità, almeno una correlazione fra Dad e risultati?
In base ai dati che abbiamo a disposizione no, come ha segnalato l’Invalsi stesso, venendo poi però subissato da letture frettolose. Non è possibile isolare l’effetto delle particolari scelte didattiche dei docenti da quello più ampio che ha avuto la pandemia. La letteratura sul learing loss, la perdita degli apprendimenti, ci dice Dad è avvenuto lo stesso fenomeno di allargamento della forbice dell’apprendimento che accadeva in presenza.
Come possiamo comprendere gli effetti della Dad?
Per capire quali sono gli effetti della Dad abbiamo due problemi. Per prima cosa non abbiamo compreso che la didattica, a distanza e in presenza, è fatta di scelte, di strategie impiegate per insegnare. Si è dato per scontato che accendere un pc e collegarsi a una piattaforma significasse svolgere didattica a distanza, come dire che entrare in un’automobile significhi guidare. La ministra Azzolina ha fatto il grave errore di non comprendere tutto questo, mentre l’attuale ministro Bianchi mi pare che neanche si ponga il problema. Il secondo problema deriva dal primo e riguarda la ricerca: avremmo dovuto descrivere le particolari scelte didattiche, ascoltare docenti e studenti e correlare queste informazioni ai risultati. Inoltre, avremmo dovuto usare prove più complesse: che senso ha usare in tempi eccezionali gli strumenti che usavi in tempi di normalità? Si rischia di non cogliere apprendimenti nuovi, determinati proprio dall’eccezionalità.
Quale è stato l’impatto della didattica a distanza sulla preparazione degli studenti italiani?
È stato un impatto eterogeneo, in base ai soggetti, alle possibilità e alle scelte operate da scuole e docenti. La realtà delle nostre scuole non è riducibile a un unico quadro. Per esempio, l’Indire ha rilevato che docenti che hanno fatto scelte improntate a una didattica laboratoriale e attiva hanno riscontrato apprendimenti migliori rispetto ad altri. Ma è davvero difficile dire quale sia stato l’impatto della Dad. Per farlo avremmo dovuto intervistare docenti -come ha fatto l’Indire- ma anche studenti e famiglie. Se lo avessimo fatto, alla fine probabilmente avremmo scoperto quanto sia complesso e multiforme il quadro. Che vale sia per la distanza che per la presenza. Non esiste la scuola ma le scuole.
Quali sono i sistemi migliori per valutare degli studenti a livello nazionale o internazionale?
Il sistema migliore, a livello nazionale e internazionale, è usare un campione di studenti per fare quello che l’Invalsi non può fare: domande aperte e complesse. Così facendo avremmo informazioni molto più ricche e le scuole potrebbero lavorare su strumenti molto più significativi di quelli che prevedono crocette, corrispondenze o completamenti. Per ragioni economiche e politiche abbiamo fatto una scelta di strategia educativa diversa, e il risultato è che ora abbiamo informazioni meno ricche. Peccato.
Esistono sistemi di valutazione simili al nostro Invalsi in altri paesi?
Gettando un’occhiata in giro, esiste di peggio: ci sono paesi –su tutti gli Stati Uniti- che basano parte dello stipendio di dirigenti e docenti sui risultati ai test degli studenti. Si tratta di una scelta scientificamente e pedagogicamente infondata, e i risultati sono deleteri. Intanto, i test non possono riflettere meccanicamente la qualità della didattica e gli indicatori utilizzati non si sono dimostrati validi. Inoltre, si assiste è una conformazione della didattica alla forma dei test, con una svalutazione di tutto quello che dai test non è misurato. E questo è il problema più grave. Perché i test standardizzati non misurano le cose più importanti: come la capacità di usare le conoscenze disciplinari per trasformare attivamente la realtà. Il problema è che la valutazione da mezzo diventa il fine dell’insegnamento, questo sistema di teaching to the test produce effetti devastanti.
In che situazione versa il nostro sistema scolastico e quali sono le principali criticità che lo affliggono?
Il problema principale è che la società chiede molto alla scuola ma la supporta solo con della pessima retorica: la retorica del rientro in presenza, delle competenze, dell’inclusione e dell’innovazione prendono il posto di seri investimenti. Non che siano parole vuote, ma devono essere accompagnate da azioni conseguenti: investimenti sulle strutture, sulla formazione dei docenti, sul tempo pieno. La qualità si paga e non esistono scorciatoie, invece noi diamo spazio a letture di comodo e discorsi superficiali sulla scuola, senza prenderci la briga di analizzare in maniera seria i dati e senza ascoltare seriamente studenti e docenti, che rimangono sempre sullo sfondo.
Ci sono problemi anche sul reclutamento dei docenti?
C’è un problema di formazione e riconoscimento della professionalità della classe docente, negli anni si è preferito avere docenti sottopagati, in buona parte precari e con una formazione eterogenea. Anche qui si è scelto la scorciatoia per poi colpevolizzare la scuola, anziché il sistema sociale ed economico che la regola, e pensare di risolvere problemi strutturali con una spruzzatina di retorica sull’innovazione didattica.