Perché leggere questo articolo? Sorpresa! Senza che nessuno ne sentisse più la nostalgia, il governo ha ripescato dal cilindro il coniglio del redditometro. Tanto inviso dalla destra quando è all’opposizione, tanto ripresentato quando poi passa al governo. Il Grande fratello con cui il fisco può incenerire la nostra privacy e duemila anni di civiltà giuridica torna. Per volontà di chi per anni si è dichiarato arci-nemico.
Plot twist. Il grande – e assolutamente inatteso – ritorno del redditometro è il più grosso colpo di scena della politica italiana. La destra ai tempi dell’opposizione lo aveva tanto odiato, e adesso che è al governo lo resuscita. Una capovolta sorprendente. Anche per la stessa maggioranza che, almeno formalmente, lo ha riproposto. L’illuminazione è venuta al viceministro dell’Economia, Maurizio Leo. La bozza del decreto attuativo con cui il governo Meloni vorrebbe ripristinare il redditometro agita gli alleati. L’impressione è che, dopo le Europee, ne vedremo delle belle. O, più probabilmente, delle brutte.
Che diavolo è il redditometro
Di che diavoleria stiamo parlando? Il redditometro è uno strumento antievasione. Si basa su un accertamento dei redditi non dichiarati attraverso la ricostruzione sintetica del tenore di vita (spese e investimenti). L’Agenzia delle Entrate compara le spese di un contribuente con il suo reddito dichiarato, e utilizzarlo come spunto per individuare eventuali somme evase nel caso i due valori non fossero coerenti. Più che di redditometro sarebbe meglio parlare di “spesometro“.
Chiamatelo come volete, il redditometro resta un marchingegno demoniaco, in aperto contrasto con duemila anni di cultura giuridica. Uno strumento di “accertamento sintetico”, con cui l’Agenzia delle Entrate presume il reddito reale di un contribuente a partire da alcuni indicatori a sua disposizione. In barba a qualsivoglia idea di privacy e, soprattutto, invertendo l’onere della prova che passa a carico del contribuente.
Il “Grande Fratello” delle tasse da sempre contestato dalla destra
Il fatto che a riportare in auge il redditometro adesso sia la destra di governo è quantomeno sorprendente. Per anni i partiti della maggioranza hanno tuonato contro lo “sciacallaggio” di Equitalia e Agenzie delle Entrate, ergendosi a paladini dei contribuenti tartassati dal fisco. Erano però all’opposizione. Quando la destra passa al governo cambia pelle, avvicinandosi a un qualche principio di realtà. Così si scopre che il tanto inviso redditometro – comparso per la prima volta nel 1973 – è stato per la prima volta potenziato nel 2010, quando a Palazzo Chigi arrancava l’ultimo governo Berlusconi.
Dopo la convulsa stagione dei governi tecnici, la destra ha rimesso mano al redditometro durante il I governo Conte, quello gialloverde in alleanza con la Lega. Nel 2018 il “decreto Dignità” lo aveva sospeso. Attenzione, non abolito. Da sei anni si attendeva un decreto ministeriale che indicasse criteri più precisi per effettuare i controlli sulle spese. Che ora, a un mese dalle Europee, il governo ha fatto rispuntare.
Il nuovo decreto introduce 56 voci specifiche di spesa che l’Agenzia può tracciare. Abbigliamento, generi alimentari, affitto o mutuo, bollette, veicoli di proprietà. Ma anche spese per borse e valigie, alberghi e ristoranti. Nel mirino dell’Agenzia finiranno ora le spese per il tempo libero (videogiochi e abbonamenti alle piattaforme di streaming), e alcune più inusuali come quelle per mantenere un cavallo di proprietà. Ci sono inoltre 9 voci di investimento che l’Agenzia potrà controllare, tra cui l’acquisto di immobili e terreni, di titoli finanziari. E infine quelle legate alle manutenzioni straordinarie degli immobili, che l’Agenzia ha a disposizione se per esempio si è fatto domanda per ricevere i bonus edilizi.
Redditometro, uno strumento che non ha mai funzionato
Con il nuovo decreto il governo ha quindi introdotto nuove regole, facendo tornare operativo il redditometro. Sembrava una via popolare per combattere i «grandi evasori». Ma che non ha mai portato i risultati sperati. Nel 2022 ci sono stati appena 352 accertamenti e un gettito di 300 mila euro. Il 20% di quegli accertamenti ha dato esito negativo. Un altro 20% una maggiore imposta fino a 5.164 euro, osserva la Corte dei Conti. Solo in due casi tra mezzo milione e un milione e mezzo. La spesa non vale la candela, si direbbe. Perché si tratta di un accertamento lento e costoso. Insomma, oltre che problematico a livello politico, il redditometro è anche inutile a livello fiscale.