Perché questo articolo potrebbe interessarti? Il governo Meloni potrebbe applicare il Golden Power su Pirelli per tenere a bada le presunte mire del maggiore azionista cinese Sinochem. Pare che il Dragone voglia influenzare le strategie dell’azienda, in ambito operativo e di management. Si tratta di un rischio concreto oppure di un espediente mediaticatlo per far emergere la fedeltà atlantista dell’esecutivo in chiave anti cinese?
Il governo italiano è in allarme e sarebbe addirittura pronto a ricorrere al Golden Power. Il motivo è da ricercare nel presunto tentativo della Cina di “mettere le mani” su Pirelli.
Questa la narrazione ufficiale, secondo cui Sinochem, controllato dallo Stato cinese nonché maggiore azionista del gruppo, avrebbe messo all’angolo il socio italiano Camfin, espressione di Marco Tronchetti Provera. Influenzando le decisioni dell’azienda, compresa la composizione della dirigenza, e rivendicando richieste sempre più pressanti, in linea con i diktat del Partito Comunista Cinese.
Lo scorso 22 maggio, intanto, è entrato in vigore il nuovo patto parasociale per il gruppo, congelato fino a che l’esecutivo non farà chiarezza sull’intera vicenda. Il patto, che durerà fino al 2025, prevede un oggettivo rafforzamento di Sinochem, che porterà i suoi consiglieri in Pirelli da 8 a 9, mentre Camfin ne perderà uno, passando da 4 a 3.
Invariati i tre consiglieri indipendenti, mentre Tronchetti Provera perderà la carica di amministratore delegato, restando però vice presidente esecutivo (al suo posto, strada spianata a Giorgio Bruno). Fra due anni – ed è questo che ha scatenato il “caso” – il nuovo ad potrebbe essere partorito dalla lista di maggioranza, e cioè quella che fa capo a Sinochem. Con il rischio che la guida di Pirelli potrebbe non più essere italiana, ma facente capo a Pechino.
La Cina nel mirino
Il 23 giugno il governo scioglierà le sue riserve e deciderà il da farsi. Ammesso e non concesso che l’esecutivo Meloni voglia ricorrere al Golden Power, ci sono molti dubbi su come questo possa essere applicato.
Possiamo fare soltanto ipotesi, visto che Pirelli, al momento, non è un’azienda italiana che rischia di essere venduta ad un attore straniero (questo discorso poteva valere nel 2015). E allora, scartata la pista di un intervento statale diretto, c’è chi parla di possibili restrizioni sulla condivisioni di informazioni relative alle tecnologie strategiche di Pirelli con i membri del cda nominati da Sinochem e chi di limitazioni al loro diritto di voto.
I cinesi, che hanno investito fior di denari per rilanciare l’azienda italiana, non saranno affatto felici di ricevere un simile trattamento. Un trattamento, figlio di rischi ipotetici evidentemente già calcolati dall’Italia al momento dell’ingresso della Cina nel gruppo e – è lecito supporre – influenzato da un palese bias politico.
Il ring Pirelli
Il governo Meloni deve infatti fare i conti con l’operazione smarcamento dalla Cina imposta dal nuovo mosaico geopolitico globale.
Uscire dalla Nuova Via della Seta ed entrare a gamba tesa su Pirelli potrebbe consentire all’esecutivo di dimostrare prova di atlantismo a Washington ma, dall’altro lato, generare anche conseguenze inattese. Su tutte: il danneggiamento dei rapporti diplomatici con un gigante commerciale del calibro della Repubblica Popolare Cinese.
Poiché gli attuali rischi che corre Pirelli sono pressoché gli stessi degli ultimi anni, e visto che la vicenda è emersa in un momento così delicato, non è da escludere che il gruppo italiano possa essere utilizzato dal governo come ring per dimostrare di volersi allontanare dalla Cina.
Fermo restando, inoltre, che Tronchetti Provera, fin qui rimasto al comando dell’azienda mediante Camfin, in passato aveva difeso la vendita di Pirelli come un modo per garantire la sopravvivenza del gruppo. Pirelli era addirittura stata definita la “Prada dei pneumatici“.
Adesso il vento è cambiato, la presenza cinese inizia ad essere ingombrante, sia per il governo Meloni che per alcuni imprenditori, probabilmente desiderosi di ingraziarsi l’esecutivo.
Quando la Cina era un’occasione
Nel 2015, il colosso cinese della chimica ChemChina mise sul tavolo circa 7,1 miliardi di euro per diventare azionista di maggioranza di Pirelli. All’epoca l’azienda italiana navigava in acque agitate, e l’ingresso della Cina veniva considerato un valido salvagente al quale aggrapparsi.
Anzi: i giornali dell’epoca parlavano di “occasione da sfruttare”, visto che la Cina avrebbe portato soltanto vantaggi. Marco Tronchetti Provera sarebbe rimasto l’ad del gruppo, la sede sarebbe rimasta in Italia, mentre la stessa società avrebbe potuto espandersi in quei mercati dove Pechino aveva già consolidato la propria presenza.
Gli investitori stranieri contribuirono in maniera decisiva a rilanciare Pirelli, rianimando l’utile del gruppo, in perdita nel 2015, fino a farlo viaggiare, oggi, intorno ai 435 milioni di euro. Per di più, senza tradirne l’italianità e rispettando i patti.
Nel 2018, ChemChina si sarebbe fusa con Sinochem creando un nuovo gigante chimico globale con un fatturato di 120 miliardi di dollari. Sulla carta, nuova linfa vitale per l’azienda, adesso controllata al 37,01% dai cinesi di Sinochem, attraverso il veicolo Marco Polo Int. Italy Srl, al 9,02% dal fondo cinese Silk Road Fund e dal 14,10% dalla Camfin controllata da Tronchetti Provera.
Il rimanente è suddiviso tra investitori istituzionali e altri soggetti. Ma la vera partita si gioca tra Sinochem e Camfin. Tra minacce amplificate e rischi mal calcolati.