Perché leggere questo articolo: Roberto Sergio è il nome scelto per guidare la Rai. Vediamo le sfide che dovrà affrontare assieme al neo-dg Giampaolo Rossi. Con il quale condivide la strutturale ostilità a rivoluzioni profonde, ben conoscendo il mondo di Viale Mazzini, strutturalmente conservativo.
Roberto Sergio si è insediato come nuovo amministratore delegato della Rai. Dopo l’uscita di Carlo Fuortes, Viale Mazzini nell’era di Giorgia Meloni inizia una “discontinuità nella continuità”.
Sergio, un nome di compromesso aspettando Rossi?
Il consiglio d’amministrazione che elegge, tutt’altro che unanime, il funzionario e manager di lungo corso del settore delle comunicazioni è quello dell’era Draghi, nominato nel 2021. La prima soluzione di Meloni è di compromesso: un amministratore delegato pensato per traghettare al rinnovo del consiglio di amministrazione la Rai per preparare la strada al cardinale più papabile, Giampaolo Rossi, neo direttore generale.
Ma la partita di Sergio è di prospettiva. In vista del 2024, il neo-ad vuole mettere radici e durare. In quest’ottica la sua storia insegna che chi viene dalle strutture interne di Viale Mazzini difficilmente è artefice di rivoluzioni. E in attesa che il rinnovo del consiglio d’amministrazione scatti, Sergio vuole barattare spazio con tempo. Puntando al target chiaro di essere lui, giocoforza, a dare le carte nel 2024 per giocarsi un mandato più ampio.
Sergio, un democristiano in Viale Mazzini
Già la Rai “gialloverde” affidata al ticket Foa-Salini non incise profondamente nella decisione di palinsesti e strutture televisive. Ora è circolata su diversi organi di stampa la voce secondo cui l’obiettivo della Meloni sarebbe quello di portare Rossi in rampa di lancio per poi consolidare nel 2024 una Rai nazional-conservatrice epurando le tradizionali roccaforti ritenute legate al centrosinistra.
Sergio, vecchio democristiano che ha come carissimo amico e ha avuto come testimone di nozze nientemeno che Pierferdinando Casini, è per struttura personale ostile alle rivoluzioni. E sa che, al di là del fuoco di fila progressista nei suoi confronti, il primo a essere ben consapevole degli assetti interni della Rai è il neo-dg Rossi. Al quale sono da tempo messe in testa idee che mai ha espresso negli ultimi tempi.
Le prime scelte pragmatiche della “nuova” Rai
Sergio è un veterano di Viale Mazzini, prossimo ai vent’anni di carriera interna. La sua carriera in Rai, non a caso, è iniziata nel 2004, all’età di 44 anni, come direttore dell’area Nuovi Media. Ha poi attraversato tutto il sottobosco di Viale Mazzini. Sergio è stato consigliere d’amministrazione di Rai Net, Rai Click e Rai Sat e poi presidente di Rai Way dal 2012. In quest’ambito ha gestito la società che ha in mano la vera chiave per la sopravvivenza della Rai: la sicurezza del segnale. Necessaria a prescindere dall’orientamento del governo, dei ministri, dei conduttori.
Con questa forma mentis Sergio giunge alla carica di amministratore delegato, dopo aver attraversato la Direzione Radio e la carica di membro del Cda di Rai Com. Pragmatico e tendenzialmente conservativo, al suo primo consiglio d’amministrazione ha mostrato segnali d’apertura verso il mondo che più di tutti ha avversato la svolta in Rai: il centro-sinistra.
Per quietare i timori della consigliera d’area Pd, Francesca Bria, che ha votato contro la sua nomina Sergio e la presidente Marinella Soldi hanno messo in sicurezza la permanenza di Sigfrido Ranucci, Lucia Annunziata e Bianca Berlinguer in Rai. “Report”, “Mezz’ora in più” e “Cartabianca” confermati nel momento in cui la Rai non intende politicizzare, come fatto da Matteo Salvini, l’addio ai costosi contratti di Fabio Fazio e Luciana Litizzetto.
Sergio e Rossi? Punteranno sull’equilibrio
Parola d’ordine: equilibrio. E nessun stravolgimento. Sergio mira a tirare al 2024 gestendo le varie anime della Rai e a convivere con Rossi, entrato come lui in Viale Mazzini nel 2004 a RaiNet. Nella consapevolezza che il presidio ideologico ossessivo delle politiche di gestione della Rai rischiano di creare contraccolpi per l’immagine del gruppo. Alle spalle del neo-ad c’è un gruppo che deve tornare a investire, produrre risultati, fare servizio pubblico. Obiettivi come l’ingaggio di Nicola Porro o Paolo Bonolis, in questo senso, vanno letti come tentativi di giocare da attori di mercato strappando nomi di peso alla Tv commerciale.
Alla Rai, questa è la percezione, tutto sembra procedere senza grossi scossoni. Sergio, conservativo per natura, vecchio democristiano e pragmatico, non vuole stravolgere gli assetti. Ma perlomeno far riprendere un cauto movimento di nomi, volti, rose. Così da rendere tutt’altro che necessaria una futura “rivoluzione conservatrice”. Un approccio che Rossi sembra condividere, tanto che ad oggi a parlare è stato solamente il neo-ad, non il direttore generale rimasto per ora, su un profilo operativo. Proprio perché veterani della Rai, Sergio e Rossi non hanno interesse a promuovere visioni divisive del gruppo, che sarebbero controproducenti. E proprio perché chiamati a guidare la Rai al rinnovo del Cda, hanno tutto l’interesse a remare concordi. Nella consapevolezza che un lavoro ben svolto li proietterà in prima fila per le cariche del futuro. Con che gerarchia, si vedrà.