Il dibattitto sul salario minimo si arricchisce di nuovi importanti tasselli. Il CNEL guidato da Renato Brunetta è chiamato a elaborare una proposta per migliorare i salari degli italiani. Sebbene la Presidenza del Consiglio abbia nominato alcuni membri esperti, questi potranno avere un ruolo attivo solo al termine di un iter procedurale che dovrebbe trovare compimento entro fine settembre.
Nel frattempo, tuttavia, non mancano le proposte. Anzi, esiste la primogenitura di una proposta completa. Ad avere suggerito per primo l’idea di un nuovo modello econometrico-giuridico di riferimento per un tavolo congiunto è proprio il giuslavorista Francesco Rotondi, che ha predisposto un’equazione economica per il calcolo e il metodo del Reddito Civile. Il giuslavorista Francesco Rotondi, titolare dello studio LabLaw a True-News.it propone la sua idea di Reddito Civile.
Professor Rotondi, lei è stato nominato dalla presidenza del Consiglio come membro esperto del CNEL. Sebbene non sia ancora attivo nel suo nuovo ruolo, ha elaborato una proposta che vada oltre le attuali polarizzazioni legate al salario minimo. Lei parla di Reddito Civile. In cosa consiste?
Il Reddito Civile si propone di un essere un algoritmo, un’equazione centrale basata sul Prodotto Interno Lordo, un indicatore della generazione della ricchezza di un Paese in grado di cogliere elementi macroeconomici dinamici e trasferirli come moltiplicatori nell’economia reale del Paese, delle Regioni e delle Province senza disfunzioni e dispersioni. Si tratta di un “valore forte” che si propone con selettività a vari livelli nel nostro Paese, come metodo disciplinato di calcolo per gestire le dinamiche sociali attualmente intimorite da inflazione, disoccupazione e recessione.
Qualcosa di diverso sia dal salario minimo sia dal più recente Reddito di cittadinanza.
Esatto. Il Redito Civile si pone a migliore soluzione del reddito di inclusione, di cittadinanza, dell’assegno di inclusione, del supporto a formazione e lavoro e del salario minimo. Serve a superare una concezione assistenzialista di antico retaggio e a suggerire elementi per la politica economica del Paese e dell’UE (su cui esisterebbe un oggettivo confronto con omogeneità di calcolo) per i piani industriali del nuovo millennio anche grazie alla rivoluzione digitale.
Una via mediana tra chi invoca il salario minimo e chi intende lasciare al mercato libero il rischio di incrementare le disuguaglianze.
È sbagliato porre la questione come una disputa tra guelfi e ghibellini. Tutti vogliamo tutelare i lavoratori, soprattutto quelli che hanno le retribuzioni più basse. La società del ben-essere, un concetto a me caro, è fondata sulla dignità sociale, sull’etica comportamentale che deriva dalla condizione di libertà dal bisogno. Una società in grado di promuovere progresso e sviluppo, benessere, istruzione, formazione, riqualificazione, riorientamento professionale. Ovvero “vita civile” per tutti i cittadini. È una lettura moderna del pensiero della Costituzione.
Come realizzarlo?
Occorre uno studio profondo per individuare un meccanismo che parta dai numeri sul PIL comunitario, nazionale, regionale, selezionato e ponderato per segmenti oggettivi, e li metta in relazione con il PIL pro capite dei singoli lavoratori al quale va comunque aggiunto un plus per tutto ciò che è svago o investimento personale o sulla famiglia.
Ha dichiarato alla Verità nei giorni scorsi che per fare tutto questo non è necessaria una legge, ma è sufficiente la contrattazione collettiva. In che modo?
La risposta è apparentemente semplice: come è stato fatto fino ad oggi. La domanda corretta a mio avviso sarebbe: come mai oggi emerge questa tematica? Perché si pensa che non sia più materia delle parti sociali? È sufficiente immaginare un valore universale dell’ora-lavoro?
E lei che risposta dà?
Ognuna di queste domande meriterebbe una trattazione lunga ed approfondita, che ho avuto modo di concentrare in un paper dedicato. Provando a fare sintesi, in primo luogo occorre evidenziare che il tema salariale è da sempre all’attenzione delle parti sociali che lo affrontano sul tavolo negoziale. Ciò avviene da decenni nel corso dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali e per certi versi ad esso si è aggiunta la contrattazione di secondo livello, la quale molto spesso ha supplito alla vacatio contrattuale e ad altre carenze del contratto nazionale.
Ma oggi?
Oggi, a causa anche del mutato contesto del mercato, delle dinamiche economiche e fiscali, ritengo che le parti sociali non siano state in grado di elaborare proposte di modifica delle retribuzioni che consentano il ripristino del potere d’acquisto dei lavoratori senza, al contempo, porre fuori dalla competizione le imprese italiane. A tutto ciò si aggiunge l’assenza di una riforma del costo del lavoro che si inserisce in un contesto più ampio. Il tema “salario” non può infatti essere trattato in modo esclusivo e al di fuori di una più vasta e definitiva riforma del “lavoro”.
La sua posizione nei confronti delle organizzazioni sindacali è dura.
È evidente al momento l’incapacità di produrre idee, di rappresentare gli interessi e di collaborare al superamento dei problemi sociali da parte delle organizzazioni sindacali. Trovo straordinario ed avvilente che le stesse OO.SS. firmatarie dei più importanti contratti collettivi che stabiliscono i valori retributivi possano oggi reclamare l’esigenza di una legge. Io la vedo come una grande sconfitta e soprattutto il venir meno dei presupposti sui quali anche la Costituzione aveva immaginato il ruolo delle parti sociali nel nostro Paese, al punto che si potrebbe aprire un dibattito sulla revisione dell’art. 39. Ricordo poi che la direttiva stessa afferma che laddove è presente una copertura dei Ccnl, non è nemmeno necessario l’intervento normativo.
Allora come dirimere la questione? Individuare una “soglia minima”, secondo lei, non è una strada percorribile?
L’idea che sia possibile e, aggiungo, sufficiente individuare una “cifra minima” che valga per tutti i lavori, per tutti i settori, per tutti i territori non ha senso complessivo. Non si possono escludere dall’eventuale calcolo tutte le variabili connesse agli elementi sopra citati, sarebbe esattamente l’opposto di presunto diritto di uguaglianza. E non è nemmeno sufficiente. Occorre intervenire sulla struttura delle retribuzioni, verificare sul territorio il potere d’acquisto reale connesso alla retribuzione. Questo tema può essere risolto solo attraverso collaborazione e convergenze di tutte le forze in campo senza che vi siano influenze meramente ideologiche o pensieri che non tengano in considerazione la visione complessiva. E lancio un’ulteriore provocazione: parallelamente a questi discorsi, bisognerebbe parlare di produttività.
A proposito di territori, era marzo 2017 quando lei ha presentato in Regione Lombardia una proposta di legge regionale dal titolo “Nuove norme in materia di contrattazione collettiva decentrata”. E anche in quel caso specificava che non si tratta di gabbie salariali. Qual è la differenza?
Questo è proprio ciò che intendevo. Le gabbie salariali sono state un sistema di contrattazione collettiva degli anni Settanta con logiche che non possono minimamente essere richiamate nei giorni nostri. Il “richiamo mediatico” è solo uno spot politico privo di sostegno razionale, tecnico e sociale. Qui non si tratta di creare un sistema avulso dalla realtà attraverso la segmentazione geografica come in quel caso.
Ci spieghi meglio.
Le faccio un esempio banale: perché pensiamo comunemente che in certi luoghi si spenda meno? L’idea nasce dall’osservazione della realtà, dalla verifica analitica di quello che trasforma la retribuzione in reale potere d’acquisto. Tralasciare questo punto porterebbe a situazioni ingestibili. I famosi nove euro potrebbero essere sufficienti, insufficienti, a seconda di ciò che ho evidenziato. Trovo che la contrattazione di prossimità possa veramente dare un contributo decisivo.
Come avviene anche in altri Paesi.
La differenziazione del minimo salariale per regione, settore e produttività in altri Stati è cosa pacifica da anni. La politica fino ad oggi attuata in Italia riferita agli “aiuti di Stato a pioggia” può considerarsi un fallimento.
Perché?
Il fallimento non è la logica in sé “dell’aiuto”, bensì la modalità. Trattare tutte le situazioni in modo egualitario a prescindere dalle effettive necessità e caratteristiche del mercato neutralizza il beneficio e lo spirito sottostante all’intervento.
Ecco che qui entra in gioco invece il Reddito Civile da lei proposto, che può essere calcolato. Come?
Il Reddito Civile risulta elaborato dal Prodotto Interno Lordo. Ho provveduto al calcolo analitico con l’introduzione di correttivi e integrazioni, come dato certo e incontrovertibile anche per il futuro. Un dato che costituisce una trasposizione possibile per obiettivi di politica economica e finalità sociali da condividere ad ogni livello. La riflessione quantitativa che suggerisco muove dalla metodologia già ispirata da John Maynard Keynes con il modello del moltiplicatore e il superamento della “disoccupazione tecnologica” grazie ad una società del diritto che progredisca e divenga più ricca. È inoltre doveroso il richiamo al Modello del Ciclo di Vita del Reddito e dei Consumi di Franco Modigliani. Quest’ultimo integra il pensiero di Keynes suggerendo la teoria dei comportamenti di consumo e di risparmio delle società nel superamento della crisi del 1929.
E quali obiettivi si pone il Reddito Civile?
Ho pensato che fossero due gli obiettivi del Reddito Civile: il primo è quello di giungere ad un numero, un valore, con spirito proattivo e rigore metodologico. L’impiego empirico non va a invalidare o a mitigare il suo significato di strumento di crescita, di appropriato parametro di misurazione del cambiamento e di fattore di alimentazione selettiva dello stato di salute sociale e dell’economia del Paese. Il secondo obiettivo è quello di rendere il Reddito Civile un “ponte metodologico e concettuale” tra il diritto e l’economia. Indispensabile è l’esperienza giuslavorista per le prospettive di azione politica nella risoluzione degli attuali problemi di instabilità economico-sociale e di scetticismo diffuso sui futuri possibili, oltre alla elevata numerosità dei contratti esistenti.
La convergenza inevitabile tra economia e diritto per una effettiva società del benessere era già al centro di una sua riflessione condivisa con True-News. Perché questa convergenza è così cruciale anche nella definizione del Reddito Civile?
Uno stato di civiltà non può prescindere dal diritto e dalla ricchezza sociale, che nel mondo contemporaneo non possono a loro volta prescindere dall’economia. Tra l’altro anche il premio Nobel per l’economia nel 2001 Michael Spence con Joseph E. Stiglitz, proprio per lo studio delle asimmetrie rilevabili sui mercati, cita la necessità di un’inevitabile convergenza tra modelli economico-comportamentali e giuridico-sociali per lo sviluppo di una società del benessere. Il Reddito Civile, oltre che valore, numero e misura derivata dal PIL, diviene metrica e strumento di politica economica e sociale per il Paese, ponendosi come un “ponte concettuale” tra il diritto e l’economia.