Uno tsunami senza precedenti, con danni globali per un valore di oltre 2.600 miliardi di dollari. Il mondo sembra essersene scordato, ma la crisi di Taiwan prosegue. E gli strascichi potrebbero letteralmente travolgere l’economia mondiale. Lo scrive nero su bianco l’Asian Nikkei Review, rielaborando i dati contenuti in un rapporto preparato dal Ministero della Pubblica Sicurezza e dal Ministero della Sicurezza, e presentato al Consiglio di Stato della Cina lo scorso aprile. Qualora le crescenti tensioni dovessero trasformarsi in azioni militari, è lecito supporre una serie di sanzioni economiche da parte di Stati Uniti, Unione europea e Giappone (e forse altre nazioni) contro Pechino. Il modus operandi, simile a quello adottato con la Russia per la guerra in Ucraina, rischia tuttavia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Perché Pechino non è Mosca. E perché, soprattutto, il Pil cinese vale dieci volte quello russo.
La debolezza della Cina
“Se gli Usa e i loro alleati si attivassero per varare sanzioni, il nostro Paese tornerebbe a un’economia pianificata chiusa al mondo”, si legge nel report trasmesso ai vertici politici cinesi. In altre parole, nel caso in cui l’Occidente dovesse imporre alla Cina sanzioni analoghe a quelle varate nei confronti del Cremlino, gli effetti sortiti da una simile mossa, come vedremo, farebbero tremare il pianeta. In ogni caso, il citato documento riservato conterrebbe un punto chiave sul quale vale la pena riflettere. Nelle condizioni sopra elencate, “c’è un alto rischio che la Cina debba affrontare una crisi alimentare“, avverte il rapporto. Il motivo è semplice. Se le esportazioni e le importazioni cinesi dovessero essere interrotte a causa delle sanzioni occidentali, i guadagni della Cina all’estero scomparirebbero.
Allo stesso tempo, gli articoli essenziali smetterebbero di essere importati da Pechino. Un ipotetico stop alle importazioni di semi di soia farebbe vacillare l’ex Impero di Mezzo. Il gigante asiatico, infatti, è una potenza agricola ma il suo tasso di autosufficienza dalla soia è inferiore al 20%. In più, il Paese fa affidamento sugli Stati Uniti per il 30% delle sue importazioni del prodotto. Ma perché la soia è un elemento così essenziale per il Dragone? I semi di soia sono utilizzati non solo nella produzione di olio commestibile, pilastro della cucina cinese, ma anche come mangime nell’allevamento di maiali. Si dà il caso che la carne di maiale rappresenti il 60% della carne consumata oltre la Muraglia
Il costo delle sanzioni
Da un lato eventuali sanzioni mirate metterebbero effettivamente in ginocchio la Cina. Dall’altro lato, però, anche il resto del mondo sarebbe costretto a pagare un prezzo altissimo. Secondo stime Nikkei, a fronte dell’innesco di un sistema sanzionatorio, 2,6 trilioni di dollari evaporerebbero come neve al sole. Calcolatrice alla mano, stiamo parlando di un importo pari al 3% del pil mondiale. Considerando gli ultimi dati del 2018, se le esportazioni cinesi verso Europa, Giappone e Usa diventassero impossibili, ci sarebbero pressioni al ribasso per 1,6 trilioni di dollari sull’economia cinese. Il 7,6% del pil nominale cinese cesserebbe di esistere, secondo l’analisi.
Al contrario, il blocco delle esportazioni giapponesi verso la Cina farebbe ridurre l’economia di Tokyo del 3,7% del suo pil (190 miliardi di dollari). L’Europa perderebbe il 2,1% del suo pil, mentre gli Stati Uniti l’1,3%. L’interruzione del commercio giapponese, statunitense ed europeo con Pechino comporterebbe, di conseguenza, la dissoluzione di 1,91 trilioni di dollari di valore aggiunto. Per un totale del 2,2% del pil mondiale. Attenzione però, perché se altre nazioni dovessero sanzionare la Cina, a quel punto il conto salirebbe a 2,61 trilioni di dollari. A differenza di quanto accade con la vicenda russa, pressoché tutte le aziende del mondo sono, direttamente o indirettamente, legate o interessate al mercato cinese.