Incertezza e complessità: alle tante sfide dell’economia italiana ed europea l’ex ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti ritiene si debbano aggiungere, nell’anno presente, le variabile dell’imprevedibilità degli scenari economici e geopolitici su scala internazionale. Con l’ex deputato dell’Unione di Centro, già ministro dell’ambiente (2014-2018) nei governi Renzi e Gentiloni, oggi presidente dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (Ucid), parliamo delle prospettive del Paese. Partendo dagli shock globali e interni che recentemente ha dovuto subire.
Il 2024 si apre in un contesto di grandi incertezze. La crisi energetica è ormai alle spalle, ma resta decisamente aperta la partita dei tassi d’interesse. Che prospettive vi attendete come Ucid?
Siamo nell’epoca dell’incertezza e stiamo reagendo. La capacità di riposizionare il Paese su diverse filiere di approvvigionamento di energia ha reso chiaro come non esistano “destini immutabili”: siamo capaci di ovviare – e di farlo in fretta – anche a shock geopolitici violenti e inattesi, tanto da mettere in discussione politiche energetiche consolidate e trovare alternative in tempo utile. L’attuale stato di tensione internazionale intorno alla questione israelo-palestinese rischia di portare crisi nuove e inattese. Penso all’emergere inaspettato delle ostilità nel Mar Rosso da parte degli Houthi, sostenuti dall’Iran. Le rotte commerciali su nave si stanno spostando, si preferisce circumnavigare il continente africano per paura degli attacchi e per l’impossibilità di assicurare il carico. I noli marittimi ne risentono in termini di prezzi e anche i tempi si allungano. L’Iran ora minaccia di incominciare ad agire per procura anche a Gibilterra, rendendo difficoltoso l’accesso al Mediterraneo. Ci aspettavamo tutto questo? Certo che no. Sempre più oggi, istituzioni e imprese si trovano a dover gestire fenomeni inattesi, stiamo sviluppando competenze e capacità di reazione. Per quanto riguarda i tassi sono ottimista: abbiamo vissuto la fase più intensa e generalizzata di aumento dei tassi di cui si abbia memoria. Tutte le banche mondiali hanno stretto i cordoni e aumentato il costo del denaro; eppure, non siamo sprofondati in recessione. Certo, la crescita ha perso intensità, ma lo scenario di “atterraggio morbido” sembra prevalere. Ora i tassi possono tornare, gradualmente, a diminuire, ridando fiato all’economia. Ce lo aspettiamo.
L’inflazione sembra essere sotto controllo rispetto a un anno fa. Possiamo tornare a sperare in un contesto più ordinato o è troppo presto per cantare vittoria?
Venivamo da anni di politiche monetarie espansive, pensate per stimolare l’economia dopo il colpo subito nel periodo pandemico e realizzate senza troppo guardare agli effetti sui prezzi. A ciò si è aggiunta l’inflazione importata con le forniture energetiche per via delle ritorsioni di Mosca, e incorporata nei prezzi di tutti i beni. Con la stretta sui tassi di sconto l’economia si è raffreddata e l’inflazione è scesa, merito anche di aver riportato sotto controllo il prezzo dell’energia. Al contrario di quanto si temeva, la stretta sui tassi non ha determinato contraccolpi sull’occupazione, che ha continuato ad aumentare fino a sfiorare il 62% e le aspettative sono rimaste di crescita, pur contenuta. Va sottolineato che rimane più alta la cosiddetta inflazione del carrello della spesa (a novembre +5,4%), misurata su un paniere di beni il cui consumo è quotidiano.
Un’inflazione che tocca direttamente la quotidianità dei cittadini…
Questa parte di inflazione è la più iniqua, perché colpisce i consumi incomprimibili e mette in difficoltà le fasce di reddito più deboli. La stretta sui tassi è stata faticosa per il mondo dell’impresa che usa la leva finanziaria per innovare e dare vita a iniziative. Varie sono le imprese che hanno dovuto mettere in pausa progetti importanti per via del costo del denaro. È aumentato il tasso di default: da 1,6% nel 2021 a 2,5% nel primo trimestre 2023, dicono i dati Crif. Ricordiamoci però che sul medio e lungo termine l’inflazione ha effetti deteriori: in uno scenario di inflazione fuori controllo le imprese rinunciano a investire perché la remunerazione degli investimenti diventa eccessivamente incerta, il margine di guadagno rischia di venire eroso dalla perdita di valore del denaro. Per buone ragioni le banche centrali si danno l’obiettivo di tenere sotto controllo l’inflazione. Ora però la dieta deve diventare meno rigida: è il momento di pensare alla discesa dei tassi.
Il PNRR entra, per l’Italia, in un anno decisivo dove si inizierà a toccare il picco di spesa. Come giudicate finora le prospettive del piano?
Con il Pnrr non si scherza, il Governo lo sa. Con il ritorno del Patto di Stabilità dal 2024 si riducono le prospettive di deficit e ritorna l’obiettivo di abbassare il debito pubblico. Ergo, le finanziarie avranno qualche limite in più e le risorse del Pnrr saranno indispensabili per dare linfa all’economia. L’avvenuto versamento della quarta rata da 16,5 miliardi è una buona notizia. Abbiamo superato la metà del guado, oltre 100 miliardi di euro incassati sui 194,4 complessivi. Ora l’obiettivo è la quinta rata, da 10 miliardi e mezzo. Anche le previsioni di crescita per il 2024 – sia del Governo (1,2%), sia di Banca d’Italia (0,6%), sia della Commissione Europea (0,9%) – sono fortemente legate all’impiego delle risorse del Pnrr. Vietato sbagliare.
Che priorità dovrebbe avere l’Italia in termini di investimenti e riforme destinate a dare slancio al PNRR?
L’importanza delle riforme viene troppo spesso dimenticata. Il Pnrr potrà essere una vera svolta soprattutto se porterà in eredità non solo risorse economiche – a prestito e a fondo perduto –, ma un rinnovamento della pubblica amministrazione e delle sue capacità. A tal proposito c’è qualche ragione di ottimismo. In primis, perché si temeva che la pa si dimostrasse inadeguata a spendere tale mole di risorse e invece, con qualche difficoltà, stiamo procedendo. E poi perché il Pnrr mette tra le condizioni una graduale riforma degli apparati pubblici nel segno di digitalizzazione, semplificazione dei processi, investimento sul capitale umano (formazione, riorganizzazione, aumento dell’attrattività professionale). Dotare il Paese di una pubblica amministrazione più forte è un obiettivo strategico per le imprese. Così anche il rilancio delle politiche attive del lavoro, a partire dal Programma GOL, con il quale si prende in carico chi è in cerca di un impiego, non solo con un sussidio pubblico, ma con formazione, orientamento al lavoro, servizi di matching. Per le imprese, il collo di bottiglia più difficile da superare oggi è il reperimento di profili professionali qualificati, in questa prospettiva benissimo anche il rilancio della rete degli ITS, che nei percorsi di formazione tecnica mettono in contatto gli studenti con il mondo dell’impresa.
Per l’Italia e l’Europa arriva la prospettiva di un nuovo Patto di Stabilità. Come potrà incidere sul piano macroeconomico?
Che l’Europa si sia decisa a superare il patto di stabilità in vigore pre-pandemia è già di per sé un bene. Il nuovo patto è necessariamente un compromesso tra Paesi con situazioni di finanza pubblica ben differenti. Le regole fondamentali rimangono, a contenimento del deficit e del debito pubblico. Si sono introdotti però margini di flessibilità per adattare gli obiettivi alle condizioni dei singoli Paesi, tenendo conto della spesa per interessi sul debito e cercando di non bloccare la spesa pubblica per investimenti. Se funzionerà lo vedremo, intanto già il fatto di prevedere piani ad hoc per i singoli Paesi è un passo avanti. Vorrei ricordare che il patto di stabilità non è una fissazione di qualche tecnocrate di Bruxelles. Serve. Il grande nemico del nostro Paese è il debito pubblico, lanciato verso quota 2.900 miliardi: tenerlo sotto controllo è una priorità. Basti pensare a come sta lievitando la spesa per gli interessi sul debito italiano: nel 2020 si attestava a 57 miliardi di euro, già un’enormità. Nel 2022 è arrivata a 83 miliardi e per il 2024 si prospetta oltre i 100. Quasi raddoppiata in 4 anni. L’inflazione ha gonfiato il PIL, e quindi è diminuito nominalmente il rapporto con il debito pubblico, che però in termini assoluti ha continuato a crescere e di cui è aumentato il costo, con l’aumentare dei rendimenti dei titoli di Stato. Ora non possiamo più fingere: il tasso di inflazione si abbassa al di sotto dei tassi di interesse sul debito e quindi il rapporto PIL-debito pubblico non può che tornare a salire, anche nominalmente.
Sul fronte economico-sociale, molti dati evidenziano un aumento del rischio emarginazione sociale ed esclusione, oltre che dei working poors. Come le istituzioni e le associazioni di categoria possono dialogare per risolvere questi problemi?
La risposta per chi proviene dall’orizzonte culturale della dottrina sociale della Chiesa è nel dialogo tra le rappresentanze di impresa e lavoro. Ho qualche dubbio su interventi di legge in materia salariale e di lavoro perché rischiano di pregiudicare la libertà contrattuale delle parti, la capacità di autoregolamentazione del mondo del lavoro. Certamente, rinnovare i CCNL è fondamentale. Ma anche la contrattazione di secondo livello, che stando al report Inapp 2023 copre meno del 10% delle imprese. Bisogna trovare forme di incentivo che portino le imprese e i lavoratori ad avviare processi di contrattazione evoluta, che tenga insieme salario e produttività e generi sviluppo condiviso. Si dirà: c’è un problema con la galassia di piccole e microimprese, difficili da coinvolgere in processi di contrattazione di secondo livello. Vero, il nostro sistema produttivo è costituito in gran parte da aziende di dimensioni molto ridotte. Esiste per questo la bilateralità, la contrattazione di territorio, grande opportunità che permetterebbe di superare la natura pulviscolare di gran parte dei contesti produttivi, mettendo al tavolo imprese, sindacati, istituzioni. In materia di lavoro, troppo spesso non cogliamo l’importanza di agire sul territorio.