Con l’insorgere dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, lo smart working è apparso come la principale soluzione non solo per consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa, ma anche per contenere il diffondersi del virus e tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Il lavoro agile rappresenta una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato. L’attività lavorativa viene svolta in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, in assenza di vincoli spaziali, e dunque senza una postazione fissa, e in assenza di vincoli temporali. Il dipendente non è tenuto al rispetto di precisi vincoli di orario, dal momento che l’attività da svolgere viene concordata con il datore di lavoro esclusivamente in funzione del raggiungimento di determinati obiettivi.
Smart working semplificato: come funziona
Gli interventi governativi che hanno visto la luce a partire da marzo 2020 hanno incentivato il ricorso allo smart working con lo scopo di evitare occasioni di contagio nel luogo di lavoro. I datori di lavoro, fino al 31 dicembre 2021 – in base a quanto previsto, da ultimo, con il Decreto Riaperture – possono fare ricorso al cd. smart working semplificato. Nello specifico, lo smart working può essere applicato in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato senza la necessità che gli aspetti più salienti della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali siano regolati da uno specifico accordo raggiunto tra il datore di lavoro e il dipendente.
I risparmi per le imprese dallo smart working
Con l’avanzare dei mesi, i datori di lavoro hanno individuato nello smart working, oltre ad uno strumento per preservare la salute dei dipendenti, un’opportunità per incrementare la competitività delle proprie imprese attraverso un importante abbattimento dei costi del lavoro. Sono innegabili, infatti, i risparmi sulla gestione degli spazi fisici (sotto forma, ad esempio, di risparmi sulla pulizia e l’illuminazione dei locali) e dello stesso personale (si pensi al risparmio sulle spese di trasporto). La repentina diffusione dello smart working, anche alla luce dei vantaggi che tramite esso gli operatori economici riescono a conseguire, ha reso, peraltro, evidente una serie di problematiche connesse alla tutela del lavoratore agile e al corretto trattamento economico-normativo da riservare allo stesso.
Smart working, il rischio è la discriminazione tra lavoratori
Principio fondamentale della disciplina dello smart working è il divieto di disparità di trattamento e di discriminazione dei lavoratori che svolgono la prestazione di lavoro agile rispetto ai colleghi che, a parità di mansioni, operano presso i locali aziendali. A tutti i dipendenti, a prescindere dalle modalità di svolgimento dell’attività di lavoro, devono essere garantite le medesime condizioni di lavoro, come le ferie, i permessi o le progressioni di carriera. L’Amministrazione finanziaria ha recentemente declinati tale principio con riferimento a diverse fattispecie concrete. È stato, ad esempio, ritenuto ragionevole che i dipendenti tenuti a rendere la prestazione presso la propria abitazione, anziché presso i locali dell’azienda fossero tenuti indenni dalle spese sostenute per svolgere l’attività lavorativa.
In questo senso, sono stati considerati esenti da IRPEF i rimborsi spese – purché analiticamente individuati – per il consumo di energia elettrica per l’utilizzo del computer, per il consumo di acqua e di altri materiali di consumo per l’utilizzo dei servizi igienici, nonché per l’utilizzo del riscaldamento per un’ora al giorno nella stagione invernale.
Anche in tema di welfare aziendale è stata affermata la necessaria parità di trattamento tra il lavoratore agile e il lavoratore in sede. Secondo l’Agenzia delle entrate (risp. 123/2021), il buono pasto può essere corrisposto dal datore di lavoro a tutti i dipendenti e, a prescindere dalle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (in presenza o in smart working), lo stesso sconterà sempre il regime di parziale esenzione fiscale ai fini IRPEF (4 euro in forma cartacea, 8 euro in forma elettronica). Soluzioni di minor favore sono state, invece, rese dall’Amministrazione finanziaria a problematiche inerenti profili transnazionali dello smart working. Nel caso di lavoratori distaccati all’estero, ma rientrati in Italia a causa delle restrizioni alla mobilità introdotte per via dell’epidemia da Covid-19, l’Agenzia delle entrate (risp. n. 345/2021) ha affermato che la presenza fisica del lavoratore nello Stato in cui viene effettuata la prestazione lavorativa non può che comportare la tassazione del reddito di lavoro dipendente secondo le regole ordinarie anziché secondo il più favorevole regime delle retribuzioni convenzionali.
Normare lo smart working è la sfida del futuro
Il ricorso allo smart working, anche se dettato da ragioni straordinarie come l’emergenza sanitaria in corso, comporterebbe il venir meno della disciplina fiscale del distacco internazionale. In una recentissima Risposta ad interpello (Risp. n. 458/2021), l’Agenzia delle entrate ha anche ammesso che lo smart working possa influire sulla determinazione della residenza fiscale e del luogo di produzione del reddito dei lavoratori dipendenti espatriati. Secondo l’Amministrazione finanziaria, un lavoratore residente all’estero ma in smart working in Italia a causa delle straordinarie misure restrittive anti-Covid, deve essere considerato fiscalmente residenti in Italia. Se il lavoratore agile trascorre nel territorio di uno stato più di 184 giorni, risulta, difatti, avere lì il domicilio per la maggior parte del periodo d’imposta. Ciò posto, si auspica, in continuità con l’istituzione di un apposito tavolo tecnico da parte dell’ex Ministro Catalfo, un intervento normativo volto ad aggiornare la disciplina dello smart working, per individuare nuove regole finalizzate a valorizzarne l’utilizzo e risolverne le diverse criticità anche sotto il profilo fiscale.
articolo a cura di Avv. Gianpaolo Sbaraglia e Avv. Giovanna Chiarandà, Studio ACTA