Perchè questo articolo potrebbe interessarti? Al netto della crisi politica interna, se lo Sri Lanka è finito nell’occhio del ciclone gran parte delle responsabilità sono da ricercare nella scellerata politica green adottata da un Paese economicamente troppo fragile. Quanto accaduto qui, inoltre, dovrebbe fungere da monito per altre nazioni simili che intendano abbracciare politiche analoghe. E intanto i rapporti economici con l’Italia evaporano come neve al sole.
Un disastro economico senza precedenti, l’assalto di migliaia di manifestanti ai palazzi del potere, le numerose razzie e la precipitosa fuga del presidente Gotabaya Rajapaksa. Sono passati pochi mesi da quando lo Sri Lanka è finito nel baratro, a causa di una crisi facilmente prevedibile e figlia di una miope politica green per niente adatta al contesto srilankese. Le immagini delle proteste di Colombo, la capitale del piccolo Paese asiatico, hanno impressionato l’opinione pubblica mondiale. Ancora oggi l’isola fatica a risollevarsi, e il presente è avvolto nella nebbia. Per evitare che altre nazioni povere possano incorrere in un simile destino è bene interrogarsi sulle reali cause che hanno trasformato lo Sri Lanka in uno Stato fallito, alla fame e incapace di saldare i suoi debiti.
Che cosa cambia per l’Italia
Nel 2018 gli affari sull’asse Roma-Colombo viaggiavano a gonfie vele. Nel 2020 il volume di scambio commerciale ammontava a 590 milioni di euro, seppur con un saldo commerciale negativo per l’Italia di -161 milioni. In quello stesso anno l’interscambio commerciale si è ridotto considerevolmente anche a causa dell’impatto della pandemia (-13,9%). Il nostro Paese è comunque stato il 14esimo fornitore, nonché il quinto cliente di merci dello Sri Lanka. Scendendo nei dettagli, il valore complessivo degli IDE italiani in Sri Lanka ammontava, prima della crisi politica descritta, a circa 174 milioni di euro.
I suddetti investimenti italiani si concentrano per lo più nel settore tessile e alimentare (fra i principali investitori ci sono Calzedonia e Perfetti). Al contrario, il valore complessivo degli IDE srilankesi in Italia si ferma a 31 milioni di euro. Il Paese asiatico esporta verso Roma prevalentemente prodotti tessili mentre importa sempre dal Belpaese articoli di abbigliamento (anche in pelle e pelliccia). Adesso bisognerà capire come, e in quali tempistiche, si ristrutturerà un rapporto che aveva appena iniziato a decollare.
L’economia dello Sri Lanka a picco
La crisi che ha travolto lo Sri Lanka ha molteplici cause. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è da ricercare nella guerra in Ucraina, o meglio, nell‘iperinflazione dei prezzi dei cereali scaturita dal conflitto. Prima ancora c’erano tuttavia altri prodromi di una catastrofe tanto annunciata quanto imminente. Tra questi, una crisi agroalimentare figlia di un’ambientalismo che ha sostanzialmente affamato la popolazione. E poi un debito bilaterale totale enorme, che oggi ammonta 10 miliardi di dollari, il 50% del quale, secondo l’ultimo rapporto ufficiale del Ministero delle Finanze Sri Lanka Update to Creditors, dovuto alla Cina.
Un mix letale di fattori ha dunque mandato sul lastrico lo Sri Lanka. L’aspetto sul quale vale la pena porre l’attenzione riguarda però la crisi agroalimentare. Come ha fatto Colombo ad arrivare al punto di non ritorno? Il presidentissimo Rajapaksa, ben lieto di mettere in pratica i consigli di funzionari occidentali ultra-ambientalisti, ha sostanzialmente convertito l’agricoltura locale a metodi agro-biologici. Le autorità srilankesi hanno così imposto l’agricoltura biologica all’intero Paese, provocando, al contrario delle aspettative, una fame diffusa. Col senno di poi, il Wall Street Journal ha definito questa volontà riformatrice un “disastro umano”.
Il fallimento del paradigma green
Alla base della cacciata di Rajapaksa c’è – anche e soprattutto – una verità troppo spesso ignorata. Tra le colpe del presidente troviamo quella di essersi mascherato in guerriero verde e aver obbligato i suoi connazionali a sposare una politica green a dir poco rischiosa. La stessa politica che la sinistra ambientalista americana considra sacra, e che vorrebbe mettere in pratica ovunque. Nel 2019, il signor Rajapksa ha passato gran parte della sua campagna presidenziale a promettere una sorta di utopia tecnocratica. Nell’arco di un decennio, assicurava il presidente, l’agricoltura del Paese sarebbe completamente diventata biologica. Poi è arrivata la pandemia di Covid. Accanto alla corruzione e ai conti statali sempre più disordinati, l’emergenza sanitaria ha spazzato via il turismo, pilastro economico dell’isola.
Nonostante gli effetti della pandemia sulla popolazione, Rajapaksa ha deciso, il 27 aprile 2021, senza preavviso e senza prima istruire gli agricoltori su come prepararsi al cambiamento, di vietare tutti i fertilizzanti sintetici e i pesticidi. Risultato: l’agricoltura srilankese sarebbe diventata biologica al 100% per proteggere l’ambiente e la salute delle persone. Gli agronomi, inascoltati, hanno più volte avvertito della catastrofe che sarebbe seguita a questa folle decisione. L’esito della politica green ha provocato la diminuzione del 20% della produzione di riso nei soli 180 giorni del divieto dei fertilizzanti sintetici. Il tè, principale raccolto da reddito, ha invece dovuto fare i conti con le esportazioni più basse in un quarto di secolo. Gli agricoltori, infine, hanno lasciato un terzo dei terreni agricoli a maggese, mentre i prezzi del cibo sono aumentati vertiginosamente per via della scarsità di risorse. Il resto è storia recente. Le lussuose politiche green si sono insomma rivelate un prodotto per ricchi. Da questo punto di vista, la “cavia” Sri Lanka dovrebbe far riflettere i paladini del green a senso unico.