Perché questo articolo potrebbe interessarti? Dal sogno di una ripartenza verso il futuro all’attualità che parla di uno stabilimento che rischia di diventare improduttivo: la storia dell’ex Ilva di Taranto, a dispetto dei trionfalismi del 2018 dopo l’accordo voluto da Luigi Di Maio, è tutt’altro che risolta
Sono passati esattamente otto anni da quando si è avuto l’annuncio dell’avvio di una nuova fase per l’ex Ilva di Taranto. Lo stabilimento siderurgico cioè da anni al centro di tentativi di rinascita e di concreti timori di chiusura. In quell’8 settembre 2018 ad annunciare la fine delle diatribe e l’inizio di una nuova era, è stato l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio.
Il contesto era infatti quello del governo gialloverde, l’esecutivo cioè formato da Lega e Movimento Cinque Stelle guidato da Giuseppe Conte. Di Maio, leader politico pentastellato, è stato tra gli artefici di quell’accordo di governo di cui era anche vice presidente del consiglio. Da titolare del dicastero del Lavoro e delle Attività Produttive, accorpati in quella compagine governativa, ha cercato di dare un preciso indirizzo allo stabilimento pugliese. In particolare, Di Maio è stato artefice della cessione della struttura al colosso franco-indiano ArcelorMittal. Da qui le tante promesse sul futuro dell’impianto. A partire dal mantenimento dell’occupazione, da un nuovo piano industriale e da un processo di risanamento ambientale. Oggi però tutte quelle promesse appaiono lontane. Sullo sfondo, come denunciato da molti sindacati, si addensano nuove pesanti nuvole.
L’importanza dell’Ilva di Taranto
Nonostante da anni il marchio Ilva ha più una connotazione storica che attuale, ancora oggi l’impianto siderurgico pugliese è noto come “Ilva di Taranto”. Si tratta di una delle strutture più grandi e importanti nel suo genere, ma anche tra le più controverse. Da un lato infatti, la presenza industriale in questo territorio ha generato migliaia di posti di lavoro e un indotto vitale tanto per la Puglia quanto per molte regioni del mezzogiorno. L’importanza però non è soltanto di carattere locale.
E lo si intuisce andando a spulciare i dati della produzione nazionale di acciaio. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, ha sottolineato come nel 2022 l’Italia ha prodotto 21.6 tonnellato di acciaio. Rispetto all’anno precedente, si è registrato un calo dell’11%. “Questo calo – ha spiegato sul portale IndustriaItaliana.it – è imputabile alla caduta di produzione dell’ex Ilva, arrivata a stento ai 3 milioni di tonnellate. Se depuriamo il dato da quello dell’ex Ilva, quindi, la diminuzione è stata del 5%”. In poche parole, se rallenta lo stabilimento di Taranto a risentirne in modo significativo è l’intera produzione nazionale.
Ci sono poi le controversie di natura ambientale. Da anni sono in corso inchieste e battaglie di numerose associazioni per denunciare il mancato rispetto del diritto alla salute, sia per gli operai che per la popolazione dei quartieri di Taranto situati all’ombra delle ciminiere. Anche in questo caso, sono state molte, specialmente nell’ultimo decennio, le promesse di risanamento poi mai mantenute. Il sogno di coniugare lavoro e ambiente al momento è rimasto lettera morta.
L’accordo siglato da Di Maio nel 2018
Come notato dai dati sopra riportati, l’ex Ilva di Taranto non sta vivendo i suoi migliori periodi. Al contrario, la sua produzione è scesa anno dopo anno. Eppure nel 2018 nella città pugliese si è vissuto un momento di intenso ottimismo. Dopo anni di tira e molla, di minacce di chiusura e di fallimento, Luigi Di Maio l’8 settembre di quell’anno ha annunciato l’accordo che avrebbe dovuto rendere, almeno nelle intenzioni, l’ex Ilva uno stabilimento modello.
L’accordo in questione in particolare ha previsto la vendita dell’impianto ad ArcelorMittal. Le firme sui documenti essenziali per far partire l’intese sono state messe due giorni prima, il 6 settembre. Sindacati, nuova proprietà e governo hanno sottoscritto un piano di rilancio della produzione, di mantenimento dei livelli occupazionali e di un parziale risanamento ambientale. Su quest’ultimo aspetto sono stati previsti investimenti volti a ridurre le emissioni e a garantire la tutela dell’ambiente sia per i lavoratori che per i cittadini.
Fiore all’occhiello del “Piano Di Maio” era il mantenimento dei livelli occupazionali. L’allora ministro del Lavoro ha esultato per la mancanza di esuberi e il reintegro progressivo di tutti i lavoratori. “Sul piano occupazionale si partiva da 10.000 assunzioni e centinaia di esuberi – ha scritto Di Maio su Twitter in quei giorni – si è arrivati a 10.700 con zero esuberi: tutti i dipendenti riceveranno una proposta di lavoro”. La reintegrazione doveva procedere a scaglioni. Il rientro a lavoro dell’ultimo gruppo di 1.800 dipendenti infatti, doveva avvenire proprio nel 2023 dopo un periodo di cassa integrazione. Ma, come denunciato in un articolo a firma di Annarita Digiorgio sul Foglio, al momento non è avvenuta.
Anche perché nel frattempo il piano ha subito già nel 2019 importanti scossoni. Nel mese di novembre, ArcelorMittal ha infatti annunciato un passo indietro, paventando un diritto di recesso dall’accordo del settembre 2018. A pesare, secondo i vertici della società, lo stop allo scudo penale introdotto da Conte nell’agosto del 2019, con un decreto però non convertito dal parlamento e quindi decaduto a partire dal 3 novembre 2019. Lo scudo, secondo ArcelorMittal, doveva servire come garanzia per gli investimenti e per l’operatività dei dirigenti, viste le indagini in corso relative ai danni ambientali.
All’epoca Conte, nel frattempo reincaricato da Mattarella per il suo secondo governo questa volta assieme al Pd, si era difeso affermando che lo scudo non rappresentava un “elemento contrattuale”. Ad ogni modo, il confronto tra le parti è diventato molto teso e a rimetterci è stata poi l’effettiva operatività del piano dell’ex ministro Di Maio. Quest’ultimo però era transitato alla Farnesina e di Ilva non si è più occupato.
Lo spettro della chiusura
Oggi la società è controllata al 63% da ArcelorMittal, la restante parte invece è di Invitalia. L’attuale assetto societario è figlio di un altro accordo, sottoscritto tra il 2020 e il 2021, che ha garantito almeno la continuazione delle operazioni all’interno dello stabilimento. Ma il Piano Di Maio nel frattempo è diventato “un sogno infranto”. Un termine quest’ultimo usato nelle scorse ore da Rocco Palombella, il leader Uilm intervistato dall’AdnKronos.
Non ci sono stati gli investimenti previsti, non c’è stato quindi il rilancio né infrastrutturale e nemmeno ambientale. Lo spettro della chiusura non è così lontano. “Tra poco più di un anno – ha sottolineato Palombella – dei 3 altoforni attualmente in marcia, ne resterà in vita uno solo che potrà produrre solo 1,7 milioni di tonnellate di ghisa rendendo insostenibile il mantenimento produttivo del gruppo”.