Uno spettro si aggira per la testa dell’uomo che nel 2012 ha salvato l’Europa: per Mario Draghi è il fantasma della patrimoniale. Pungolato da una domanda sulla – piuttosto velleitaria – allusione a una tassa di successione, Mr. “Whatever it takes” ha cassato ogni ipotesi di prelievo: “Questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini ma di darli”.
Il botta e risposta – tutt’altro che acceso – all’interno del governo ha rianimato il dibattito tra economisti e accademici che non sembra scalfire nemmeno lontanamente la politica nostrana. È la riproposizione di uno schema che va avanti da secoli in Italia.
Patrimoniale: il caso fiorentino e della signoria dei Medici
Nell’indifferenza del parlamento, tematiche correlate a imposte di successione o patrimoniali, come la mobilità verticale e intergenerazionale della ricchezza sono al centro della ricerca di economisti e storici. Uno studio della Banca d’Italia del 2016 ha analizzato nel dettaglio come a Firenze la ricchezza sia in mano alle stesse famiglie da sei secoli. In 25 generazioni, all’ombra di Santa Maria Novella sarebbero cambiate solo proporzioni, non i cognomi dei più ricchi della città. Nel 1427 la Signoria ha bisogno di soldi e impone un censimento per tassare in base alla ricchezza delle famiglie, un primo esperimento di equità fiscale. Per lunghissimo tempo non imitato nel nostro paese.
Tassa patrimoniale, l’imposta più odiata dagli italiani
Fino alla Grande Guerra, l’imposta patrimoniale è semplicemente rimasta oggetto di discussioni tra accademici, divisi in due scuole di pensiero: quella che teorizzava un’imposta ordinaria, a integrazione del sistema tributario esistente; e una seconda sostenitrice di un’imposta straordinaria, una “leva sul capitale”, mediante un prelievo una tantum. La prima concreta attuazione risale a cento anni fa, complice il dissesto del paese reduce da primo conflitto mondiale, il governo guidato da Francesco Saverio Nitti opta per la prima opzione: un prelievo ordinario sugli extraprofitti incassati dagli industriali, durante il periodo bellico, per far fronte al debito pubblico di oltre 100 miliardi.
Le emergenze italiane e il ricorso alla tassa patrimoniale
Sono sempre le guerre a spingere per delle leve sul capitale. Lo fece anche Mussolini nel 1936, per finanziare la Guerra di Etiopia con un prelievo straordinario, oltre che col contributo – non del tutto -volontario degli sposi italiani che diedero la fede nuziale come “Oro alla Patria”.
Con l’ingresso del paese nella Seconda guerra Mondiale, il 10 giugno 1940, il Duce è costretto a percorrere la seconda via ipotizzata dagli economisti: l’avvio della prima patrimoniale ordinaria italiana (Rdl n. 1529/1939). Il tributo colpiva i beni di persone fisiche, società, associazioni e ogni altro ente, purché di valore superiore a 10mila lire (8mila euro odierni), con un’aliquota proporzionale dello 0,5%.
Il crollo del regime dopo vent’anni di dittatura non ha cambiato il paradigma d’intervento economico. La ricostruzione dopo la guerra comportava ingenti spese per la neonata Repubblica, che nel 1947 sostituì la patrimoniale ordinaria con una straordinaria. Il prelievo doveva accompagnare il cambio della moneta e il censimento dei titoli. Progetto che venne puntualmente abortito nel giro di pochi mesi, senza intaccare la patrimoniale.
Una soluzione una tantum per rilanciare il paese, riproposta quasi cinquant’anni dopo in grande emergenza di fronte alla crisi del 1992, quando lo spettro del default per la speculazione sulla Lira spinse il governo Amato a introdurre, nottetempo, un prelievo straordinario del 6 per mille sui conti correnti e l’Isi – che quando smise di essere straordinaria si trasformò in Ici – sugli immobili.
Venendo a tempi più recenti e di crisi endemica, nel 2011 il governo di Mario Monti ha introdotto l’applicazione dell’imposta di bollo per i conti correnti e reintrodotto l’Ici-Imu sulla prima casa, oltre a prelievi speciali su capitali e immobili detenuti all’estero, su automobili, aerei e imbarcazioni.
Bollo auto, Imu e tassa sulle attività finanziarie: ecco le “patrimoniali invisibili”
Per un intervento improvviso, dettato dall’emergenza, c’è chi considera l’esistenza di “patrimoniali invisibili”. Al di fuori dei contesti delle manovre correttive, rientrano una serie di prelievi, come l’imposta di bollo sulle attività finanziarie e l’estensione dell’Ici-Imu sull’abitazione principale decisa dal governo Monti nel 2012. Così come la reintroduzione dell’imposta di successione. Nel 2017 la Cgia di Mestre ha calcolato l’esistenza di quindici ‘patrimoniali’ in Italia, che hanno generato un gettito per circa 46 miliardi di euro. Le principali sono le imposte sugli immobili, che hanno fruttato all’Erario 22 miliardi. Dal bollo auto sono arrivati nelle casse dello Stato 6,7 miliardi, mentre l’imposta di bollo ne ha portati altri 6,3. L’imposta di registro e sostitutiva è ammontata invece a 5,3 miliardi.
Il dibattito (infinito) nel centrosinistra sulla patrimoniale in Italia
Prima di Letta, è dello scorso anno la proposta di due esponenti della maggioranza del precedente governo Conte-bis, Nicola Fratoianni (Leu), Matteo Orfini (Pd), dell’introduzione di ”un’imposta ordinaria sostitutiva sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500.000 euro derivante dalla somma delle attività mobiliari ed immobiliari al netto delle passività finanziarie, posseduta ovvero detenuta sia in Italia che all’estero, da persone fisiche”.
Il dibattito tra i favorevoli della patrimoniale – che reputano uno strumento di ‘giustizia sociale’ chiedere un sacrificio ‘straordinario’ ai più ricchi in tempi di crisi – e i contrari – che considerano ingiusta una “seconda tassa” su un patrimonio accumulato tramite redditi che sono già assoggettati a prelievo fiscale – sembra svolgersi in parallelo con la storia di un paese la cui politica negli ultimi 100 anni l’ha messa in atto 6 volte.