Perché leggere questo articolo? Il caso Tim-Kkr in parole semplici. Una grande storia di disastri italiani, che da D’Alema arriva fino a Giorgia Meloni. Telecom torna a svendersi agli americani, per giunta pagando la cessione con soldi propri.
Il caso aziendale dell’anno rischia di passare in sordina, tra guerra e finanziari. Ma anche perchè, sotto sotto, è una vecchia storia che si ripete. Dietro la scalata di Kkr a Tim non c’è nulla di nuovo rispetto al millennio scorso. Lo stesso schema di quando l’azienda si chiama solo Telecom Italia (mancava la M di Mobile che forma la sigla Tim). Ma forse, proprio per questo, la dice lunga sulla politica italiana. Proviamo allora a ripercorrere il caso Tim-Kkr.
L’affare Tim-Kkr senza paroloni
Nella notte di domenica, dopo una lunga trattativa, il governo e Kkr avrebbero trovato un accordo per la scalata del fondo americano a Tim. L’operatore americano che gestisce un capitale da 460 miliardi di dollari ha presentato due offerte al Ministero di Economia e Finanza. La prima per l’acquisto di NetCo e Fiber, le rete primaria e secondaria di Tim.
In aggiunta, Kkr ha presentato al ministro Giorgetti anche un’offerta per Sparkle, la società che gestisce i cavi sottomarini internazionali tra Europa e America, un asset strategico del valore di un miliardo. Il termine ultimo per le due offerte è fissata per il 2o dicembre. Kkr mette sul piatto 21 miliardi per l’acquisizione delle reti di Tim e Sparkle. A cui potrebbe accompagnarsi un pagamento aggiuntivo (earn out, per gli amanti dei tecnicismi) di altri 2 miliardi per integrare la rete primaria di Tim a Fiber.
L’eterno ritorno della svendita di Telecom
Il governo non resterebbe totalmente fuori dalla partita. Stamattina è arrivato l’atteso comunicato stampa di Tim, in cui l’ad Pietro Labriola sostanzialmente conferma lo scenario delineato dalla bozza con cui in agosto il Consiglio dei ministri aveva dato mandato al Mef di Giorgetti per la scalata americana. Il Mef parteciperà in posizione di minoranza (15-20%) alla nuova società, Newco, che vedrà Kkr in maggioranza. Dentro il perimetro c’è anche Sparkle, che potrebbe essere scorporata e controllata al 100%. La partita Tim dovrebbe dunque chiudersi entro l’anno, salvo opposizioni di Vivendi. Il colosso francese al momento maggior azionista di Tim potrebbe infatti valutare di spostare la battaglia in sede di assemblea.
In ogni caso, è confermata la piena volontà del governo Meloni di far entrare dentro Tim il gruppo americano, che controlla anche lo stabilimento Marelli di Crevalcore, in procinto di chiudere con buona pace dei 230 dipendenti. Tim resta quindi saldamente in mani straniere, passando dalla proprietà francese di Vivendi (che controlla l’azienda dal 2014) a quella americana di Kkr. La privatizzazione di Telecom risale al 1997 (Governo Prodi I). Una vecchia storia di insuccesso, quella che ha messo in mano ai privati il colosso europeo delle telecomunicazioni. Nel 1997 l’antesignano di Tim fatturava 27 miliardi, oggi 15; aveva 8 miliardi di debiti netti, oggi 20; è passata da 120mila a 40mila dipendenti.
Tim, un filo rosso che lega Meloni a D’Alema
Nella notte di domenica si è deciso di assegnare il destino di Tim a un leveradge buyout. Un altro tecnicismo in cui è specializzato Kkr, che significa “acquisto a leva”, laddove la leva è il prestito delle banche a un’azienda che non ha tutti i soldi per l’acquisto. Metà dei 20 miliardi che Kkr mette in Tim sono “capitali freschi”, ovvero debito. Uno scenario che ricorre nella storia di Tim, come quando nel 1999 il governo D’Alema benedisse la scalata ostile della cordata di Roberto Colaninno attraverso la Olivetti. L’allora ad defenestrato, Franco Bernabé, sintetizzo così l’operazione: “Usano i soldi di Telecom per comprarsela, sottraendoli agli investimenti per farla crescere“. Di scalata in scalata, in questi 25 anni la scalata a Tim si ripete con meccanismi affini. Un filo rosso (come i conti dell’azienda) che lega Meloni a D’Alema. In nome del libero mercato il più importante operatore di Tlc rimane in mani straniere, pagato dai cittadini (con aumenti tariffari) e dallo Stato (il secondo azionista di Tim e Cdp).