Perché leggere questo articolo? Su Autostrade di recente sono piombate le parole del manager Gianni Mion. Il quale ha sottolineato negligenze e errori nella gestione del caso Morandi. Si riapre la polemica su chi allora negava la revoca?
E se sulle Autostrade avessero avuto ragione Giuseppe Conte e Danilo Toninelli nel 2018? Quando il 14 agosto 2018 il Ponte Morandi di Genova crollò portando con sé i 43 morti della tragedia, il governo M5S-Lega, principalmente nella sua componente grillina, spinse per la revoca immediata e senza indennizzo al concessionario. Autostrade per l’Italia, di proprietà di Atlantia della famiglia Benetton, fu poi ottenuta dallo Stato con l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti, supportata da Blackstone e Macquarie, con 9 miliardi di euro.
Autostrade, le parole di Mion cambiano tutto?
Ma le recenti dichiarazioni di Gianni Mion, ex ad della holding Edizione e manager Aspi e Atlantia, al processo contro Giovanni Castellucci, top manager di Autostrade nel 2018, aprono a un forte dubbio. Mion, che aveva già lasciato il gruppo prima della tragedia, punta il dito contro l’esplicita incuria del gruppo e la consapevolezza dei manager di un rischio crollo a Genova. E se l’ipotesi della negligenza chiamata in causa nelle prime ore da esponenti dello stesso governo non fosse una pista “populista” ma quella vera? Se la negligenza dell’ex top management di Aspi e Atlantia si dovesse confermare la pista giusta, allora Conte e l’allora titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, Toninelli, avrebbero messo sicuramente in campo la pedina di valutazione corretta.
La lezione di Sapelli sul problema di fondo di Autostrade
Certo, va detto che il Movimento Cinque Stelle ha fatto una giravolta tale da portare la revoca a ogni costo, anche dietro riacquisto delle autostrade, come programma di punta della sua agenda, ma all’inizio lo spirito era decisamente battagliero contro il top management oggi a processo. Si pensava di sfilare di netto Aspi ai Benetton, di revocare per indegnità la concessione. Di porre un freno all’errore che nel 2020 ben avrebbe sintetizzato in un’intervista a Il Dubbio un fine economista come Giulio Sapelli: “Privatizzando un monopolio tecnico, come le Autostrade, abbiamo commesso il primo errore, che ora paghiamo. Il secondo è stato sottoscrivere un regime concessionario troppo favorevole al monopolista privato”, vera causa del mancato via libera a tale revoca.
I giornalisti anti-revoca del 2018
Si temeva che revocando Aspi i Benetton avrebbero potuto fare causa e scucire per le clausole decine di miliardi di euro allo Stato in indennizzi, tutto a danno dei conti pubblici. E si invocava addirittura una natura penalizzante della mossa verso presunti “investimenti stranieri” pronti a manifestarsi. Partì il fuoco di fila pro-Benetton in stampa e politica. Luciano Capone parlò di “Stato-gangster” su Il Foglio per la proposta di revoca, accusando il Conte I di ” puntare la pistola per poi trattare. Ma intanto gli investitori scappano”.
Gli faceva eco sulla stessa testata Salvatore Merlo: “I contratti valgono più del populismo”. Sergio Colombo su Huffington Post denunciava la “caccia” ai politici filo-Benetton da parte del governo mettendo in dubbio la possibilità della revoca. Ezio Mauro, addirittura, indicava nella carta della revoca l’apoteosi del populismo. Da Repubblica difendeva i Benetton, la cui società, scriveva, “in attesa che la magistratura faccia luce”, non poteva diventare “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”.
I no-revoca della politica: Di Pietro e Renzi
Contrario alla revoca anche l’ex Ministro dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro, che disse: “Piuttosto delle revoca obbligherei Autostrade a fare ciò che non ha fatto e rivedrei il sistema delle tariffe”. Una tesi allora sicuramente cauta, ma che non poteva certo tenere conto delle dichiarazioni odierne di Mion. Radicale la presa di posizione dell’allora segretario del Pd Matteo Renzi: “Paradossalmente revocare la concessione rischia di essere un regalo a Autostrade: significa andare in causa per decenni, pagare 20 miliardi di danni e tenere Genova divisa in due”.
Fatto sta che Renzi e Italia Viva, fino al 2020, anche dopo il ritorno al governo fecero alcuno sconto sulla netta opposizione a una revoca. Neanche ammessa dall’attuale senatore e leader di Italia Viva, oltre che ex premier, l’ipotesi della violazione ai termini della concessione e dell’esplicita negligenza oggi ventilata da Mion. Per quanto Renzi indicasse in Autostrade, ovviamente, il soggetto che dovesse chiarire.
I fantasmi del passato
Tutte queste dichiarazioni esulavano dal richiamo alla politica a un ruolo di guida e organizzazione che poi su Autostrade si è vista, tra tre governi (Conte I, Conte II, Draghi) solo a metà. E ora, mentre Atlantia prova a voltare pagina con un presidente di peso come Giampiero Massolo e la svolta modernizzatrice dell’ad Alessandro Benetton, si riaprono i varchi per i fantasmi di una tragedia in cui colpe e responsabilità sono da accertare con attenzione. Su cui, chiaramente, l’attuale management non c’entra nulla.
Ma su cui il nodo dell’incuria e della scarsa chiarezza dei patti non è stato sufficientemente approfondito. Forse, nella loro semplicità, erano giuste le tesi, poi da loro dimenticate, di Conte e Toninelli del 2018. Segno che la cura di un bene pubblico non dovrebbe, per evitare rischi, essere subordinato alla logica del profitto e del disinvestimento. Pena trovarsi nel gioco infame dei rimpalli di accuse sulle tragedie.