Nelle ultime settimane ha fatto molto parlare nella politica Usa la convergenza sempre più salda tra diversi grandi finanzieri e capitalisti del tech e l’ala del Partito Repubblicano che fa riferimento a Donald Trump. Tra gli esponenti di questo mondo spiccano, in particolar modo, Elon Musk e Peter Thiel nel novero delle figure che più stanno sostenendo politicamente e con una visione del mondo precisa i conservatori. Anche sulla scia della nomina di J.D. Vance a candidato vicepresidente, questa convergenza è sempre più chiara. Del tema parliamo oggi con Alessandro Aresu, analista geopolitico ed economico, consulente scientifico di Limes e grande conoscitore del legame tra capitalismo americano, innovazione e sviluppi politici.
Con la nomina di J.D. Vance a candidato vicepresidente di Donald Trump, si salda non solo l’asse col “cantore” dell’America post-industriale della Rust Belt ma anche con un mondo sempre vicino ai repubblicani: il mondo dei venture capitalist del tech. Da dove nasce questa saldatura?
Nasce dal discorso di Peter Thiel alla convention repubblicana del 2016 di cui ho parlato quell’anno su “Limes”. Thiel espone una sua classica analisi (l’America che non costruisce più; la stagnazione tecnologica; inclusione e diversità come distrazione dai veri problemi) e dice che Trump è la soluzione. Poi, quando Trump prende il potere, altri leader tecnologici si allineano o stanno zitti. Come ha notato Kara Swisher, tanto per fare un esempio, non è che un immigrato come Satya Nadella abbia preso posizioni coraggiose rispetto ai provvedimenti di Trump sull’immigrazione. Come hanno ricordato i giornali, Vance dapprima, nonostante il suo best-seller venga letto anche da tanti elettori di Trump, dice di essere contro Trump. Thiel è il regista di Vance che diventa trumpiano ed è il grande finanziatore della sua campagna per diventare senatore. Per quanto riguarda una certa America del venture capital, per esempio Marc Andreessen, lì si saldano due cose: l’opposizione al peso regolatorio, per cui si vedono i repubblicani come una maggiore garanzia; i crescenti investimenti del venture capital nella tecnologia della difesa.
La figura emblematica di questo sistema, come ricordava, è Peter Thiel. Che ruolo gioca nel nuovo assetto politico-finanziario che si sta costruendo attorno al Partito Repubblicano?
Dal punto di vista ideologico ed economico, Thiel è una delle figure più importanti dell’America degli ultimi decenni. Nato in Germania e subito trasferito con la famiglia negli Stati Uniti, a Stanford è influenzato soprattutto da René Girard e diviene animatore del nuovo conservatorismo contro la diversità. Poi decide di fare soldi. Comincia la stagione di PayPal a cui seguono il progetto di Palantir e il lavoro di Thiel come venture capitalist che investe su grandi scommesse. Cruciale è il suo rapporto con Mark Zuckerberg come primo investitore esterno di Facebook ma anche mentore di Zuckerberg per anni, come mostrano tra l’altro in modo inequivocabile alcune mail del fondatore di Facebook recentemente diffuse.
Visione del mondo o patrimonio, cosa pesa di più nell’importanza di Thiel?
Thiel ha un patrimonio oggi ragguardevole, di più di 10 miliardi, anche grazie alla quotazione di Palantir , ma in una figura del genere non contano solo i soldi. Conta il fatto che vuole utilizzare sempre una parte ingente di questi soldi per grandi scommesse di potere, e che lo fa di continuo, che nel mentre si agita, scrive, dal saggio “The Straussian Moment” fino a “Da zero a uno”, curato peraltro da Blake Masters, altro suo pupillo che finora non è riuscito a far eleggere al Congresso. Potrei continuare a lungo con moltissimi altri dettagli. Thiel, che ci piaccia o meno, è anche una figura del “potere delle idee” (per dirla con Keynes) negli Stati Uniti contemporanei, mentre nella sinistra la figura del “potere delle idee” è Lina Khan, giovane presidente della FTC nominata da Biden. Almeno ci sono articoli, libri, tesi più o meno controverse. Altrimenti la politica sarebbe tutta alla Nancy Pelosi, ma quella è tattica politica e comitati elettorali, roba per riempire i giornali qualche giorno, mica ci sono le idee o le visioni del mondo, che invece muovono le tendenze di anni e decenni.
Ha parlato di “nuovo complesso militare-tecnologico” per commentare la saldatura esemplificata dall’asse Vance-Thiel. Come differisce questo mondo dai suoi predecessori?
Il “complesso militare-industriale” è sempre esistito. Con la crescente diffusione dell’elettronica, da Wiliam Perry in poi, possiamo definirlo già “militare-tecnologico”, e in seguito si gioca sempre di più il rapporto tra l’informatica e i vari servizi dell’apparato di difesa e sicurezza statunitense. Il modo in cui differisce in questa fase, come spiegherò meglio nel mio libro “Geopolitica dell’intelligenza artificiale” in uscita a ottobre, è che una tesi che Thiel porta avanti da tempo, quello dello spostamento delle spese tradizionali della difesa verso il software avanzato, emerge in modo esplicito, superando uno stigma della Silicon Valley verso la collaborazione con gli apparati statunitensi. Il “complesso militare-tecnologico” che sta emergendo è quindi orgoglioso, tronfio; si caratterizza con questa narrazione “patriottica”, contro gli avversari dell’America.
Elon Musk sta diventando il regista “metapolitico” di questa convergenza. Che obiettivi concreti e che narrazione cavalca il leader di Tesla, X e SpaceX?
Da tempo sono convinto che per capire Elon Musk non bisogna concentrarsi solo sulla “cappa” o sulla “nebbia di guerra” delle sue dichiarazioni e del suo personaggio, anche se chiaramente lui vuole essere quel personaggio. Certo, è incommentabile, per esempio, che abbia twittato immagini di Amber Heard in costume da cosplay di Mercy di “Overwatch”, ma se sulla base di gesti del genere non prendiamo sul serio quello che lui e Gwynne Shotwell hanno realizzato con SpaceX non capiamo nulla, perché SpaceX ha già cambiato il mondo e se esiste l’espressione “space economy” lo dobbiamo a SpaceX.
Un’azienda che, dobbiamo dirlo, ha rivoluzionato un settore intero…
SpaceX aveva ragione mentre tutti i suoi critici di dieci anni fa, dalle aziende tradizionali americane a quelle europee, appaiono ora come ridicoli. E questo è comunque enorme. Come obiettivi concreti, poi, Musk ha inaugurato una stagione in cui, invece di limitarsi a mettere vari miliardi su Twitter, li mette sulla politica in modo più esplicito, in un impasto tra orizzonte ideologico confuso e volontà di fare gli interessi delle proprie aziende. Per il carattere di Musk, inoltre, non bisogna dimenticare – anche di questo parlo più nel dettaglio nel mio nuovo libro – che lui è ancora incavolato per la vicenda di OpenAI (che del resto ha inventato), questo è evidente perché ha subito una sconfitta umiliante, e quindi vorrà influenzare Trump affinché il governo consideri tutta quella faccenda nel modo più utile per i suoi interessi e desideri.
In quest’ottica, da Vance a Musk un substrato comune punta al tentativo di ridimensionare il peso della liberal California come motore industriale e tecnologico degli Usa. Obiettivo realizzabile?
Come creare altri ecosistemi avanzati nella manifattura e nell’innovazione rispetto ai cluster tradizionali è un tema con cui gli Stati Uniti si confrontano da tempo. Oltre che nelle pubblicazioni, è presente nei vari tentativi sulle politiche pubbliche. Pensiamo per esempio alle iniziative di manifattura avanzata lanciate da Obama. Poi alla fabbrica in Wisconsin promossa da Trump con Foxconn, progetto che non si è mai realmente materializzato: ora in quello stesso sito Microsoft opererà un data center. Questo tema della “riprogrammazione del sogno americano” c’è nel libro di uno dei principali manager di Microsoft, Kevin Scott, tradotto anche in italiano, di cui avevo parlato nel 2020 su Limes anche in riferimento al best-seller di Vance. Vance come sappiamo ha utilizzato la propria storia per raccogliere capitali per diffondere l’innovazione nell’America interna. Poi nel corso del tempo sono successe due cose: uno, Musk ha mostrato sempre più con le sue aziende, e in parte con la sua filiera, che una rinascita di capacità manifatturiera è possibile, anche se ovviamente non su una scala politico-sociale paragonabile al sogno degli anni ’50-’60; due, i dati sulle costruzioni industriali mostrano già che l’aumento della capacità manifatturiera statunitense è in corso, per via dei provvedimenti di Biden, che sono stati “tarati” anche su Stati in bilico ma con un effetto che non si è mai visto nei sondaggi.
In prospettiva, questa saldatura di cui abbiamo parlato avrà valenza tattica o può raccontare una nuova fase del capitalismo americano?
Il punto è il rapporto tra capitalismo americano e società americana, che racconta un’inquietudine sotto vari punti di vista. Per esempio, l’America vive da protagonista il super-ciclo dell’intelligenza artificiale, che come ogni ciclo avrà però oscillazioni, alti e bassi. Per quanto riguarda i principali investimenti in conto capitale, li possono fare quasi esclusivamente le grandi aziende tecnologiche. All’interno del sistema statunitense (questo è un tema già presente nel mio libro sul capitalismo politico del 2020) quindi emerge anche il tema politico dell’antitrust, mentre la capacità innovativa (era sempre chiaro già 5 anni fa) viene usata politicamente dalle aziende per via della competizione con la Cina. Si tratta di un punto di tensione, così come c’è la tensione tra il profitto fondato sul mercato cinese e la diversificazione rispetto alla Cina: altra campana che suona nell’epoca del capitalismo politico. E ci sono altre incognite. Per esempio, non sappiamo quale sarà la reale ampiezza della rinascita manifatturiera degli Stati Uniti, quali e quanti progetti saranno concreti e competitivi, perché si inseriscono incognite sulla forza lavoro e il re-skilling. E appunto va considerata la divaricazione tra la dimensione economica e l’aspetto sociale, soprattutto se alcune questioni essenziali (come la diffusione della depressione, i suicidi, le morti per overdose) non cambiano.