Mark Violets, chi era costui? Il malcapitato giornalista italiano Marco Violi si è trovato coinvolto nel caso di disinformazione lanciata da una serie di profili Twitter e accusato, con il nome inglesizzato, di essere l’attentatore di Trump nella notte tra il 13 e il 14 luglio italiani.
Una fake da manuali
Un esempio di come la viralità spesso possa causare l’inquinamento di una notizia. “Il contenuto è passato da goliardico a valido di pari passo con l’internazionalizzazione delle condivisioni. Una volta sfondata la camera dei consumatori di notizie (profili comuni) per entrare nella camera degli influenzatori e dei decisori, lo scherzo è diventata bufala”, dice a True-News l’analista geopolitico Emanuel Pietrobon, fondatore di Masirax e studioso delle guerre ibride.
“Nei minuti successivi al tentato assassinio di Trump un profilo italiano noto per la pubblicazione di contenuti goliardici è riuscito a convincere il mondo intero, e dunque non soltanto il ciroscritto mondo repubblicano e trumpiano, che l’attentato fosse stato compiuto da un giornalista sportivo italiano” ragiona Pietrobon. Sottolineando che la (dis)infodemia è durata l’intera notte ed è stata provocata da un tweet viralizzato da un cocktail esplosivo di algoritmi e incompetenza”. Un problema internazionale: la bufala “non aveva attecchito solo negli Stati Uniti, ma anche in India, mondo arabo, America Latina”. Come negli attacchi cyber, a far la differenza sono gli errori umani, in questo caso l’effetto-attrazione di alcune parole che hanno acceso campanelli d’allarme.
La lezione dell’infowar su Trump
“Il post”, ragiona Pietrobon, “era stato scritto in inglese e conteneva delle parole (rabid Antifa) che, secondo me, sono state fondamentali nella determinazione dello sfondamento della bolla del cosiddetto “Twitter calcio”.
Per Pietrobon “l’inseguimento dello scoop, che in questi tempi compressi ha sostituito la verifica delle notizie, ha fatto il resto: blogger e giornalisti hanno preferito rilanciare la bufala, spacciandola per un’indiscrezione affidabile”.
Insomma, in questa fase critica “la più grande ondata disinfodemica dell’attualità, avvenuta in concomitanza col tentato regicidio più importante del Duemila, è stata l’epilogo isterico e tragicomico di una burla elevata a notizia da algoritmi rei di popolarizzare ciò che polarizza e da giornalisti chiaramente inetti e inadatti al mestiere che hanno scelto di fare”.
Si può chiudere con un mal comune mezzo gaudio, perché come nota Pietrobon, “ci lamentiamo spesso dello stato in cui versa il giornalismo italiano, ma il problema, come abbiamo visto, è globale”?. Guai a pensarlo. Per l’analista “se un comune mortale è stato in grado di creare questa debole eppure fitta coltre disinformativa in uno dei momenti più delicati della storia recente americana, cosa potrebbe fare una psyop vera, strutturata, magari a base di deepfake? Danni enormi”. A cui le società democratiche non sono ancora pienamente pronte a far fronte.