Il Super Tuesday è passato e con esso gli Stati Uniti hanno sostanzialmente certificato che a novembre sarà, ancora una volta, Joe Biden contro Donald Trump. Nella notte in cui diciassette tra Stati e territori americani sono andati al voto, l’elezione ha premiato l’aspettativa della vigilia, accelerando il percorso verso il rematch del 2020. Un vero e proprio trionfo della tendenza alla senescenza delle classi dirigenti Usa, per molti commentatori. Un effetto del meccanismo complesso delle primarie, inarrestabile quando viene avviato.
Trump fa bottino pressoché pieno alle primarie repubblicane e porta il suo vantaggio su Nikki Haley, unica sfidante di peso, sul 23-2. La Haley, vincitrice solo in Vermont, perde da Est a Ovest, dall’Alabama alla California. Joe Biden continua una marcia pressoché inarrestata. Bellezza e meraviglia della politica americana è la sua capacità di replicare queste grandi manifestazioni di vera democrazia che sono le primarie al cambiare dei tempi. Un fattore di fragilità, invece, è il fatto che questo meccanismo sul medio periodo, nel processo di svolgimento, premi le rendite di posizione. A scapito della dialettica politica forse più sana, che mette le istituzioni al sicuro nella loro continuità.
Le fragilità di Trump e Biden dopo il Super Tuesday
Il Trump e il Biden che escono dal Super Tuesday sono palesi nella loro forza ma anche, se non soprattutto, nelle loro debolezze. Sono candidati indiscussi ma vulnerabili. E che proprio per questo correranno da qui al 5 novembre, giorno dell’Election Day, sulla scia della polarizzazione della contesa. Con la prospettiva di accendere quel clima divisivo e corrosivo che ha accompagnato, soprattutto per la campagna di Trump sull’inesistente frode elettorale, il post-voto nel 2020.
The Donald, in particolare, ha dimostrato che il Partito Repubblicano è passato da essere il Grand Old Party a diventare il Trump Old Party. Ma proprio per questo dovrà stare attento al peso che i possibili “frondisti” pro Haley, quantificabili in base agli Stati tra un quinto e un terzo dell’elettorato conservatore, potrebbero avere nel far pendere contro di lui l’ago della bilancia in sfide decisive come quella del Colorado.
Trump riunirà i repubblicani?
Trump dovrà riuscire a unire il Partito Repubblicano. Affrontando sfide complesse da qua a novembre. E non parliamo solo delle diverse sfide legali. L’ex presidente in particolare si trova sotto pressione per chiarire la sua posizione sull’aborto, un tema che ha recentemente rappresentato un punto debole per i repubblicani nelle contese elettorali nazionali. Nonostante ciò, Trump non ha ancora preso una posizione pubblica sul divieto nazionale di aborto, un tema che i democratici hanno giurato di contrastare nelle prossime elezioni.
Dopo delle primarie impegnative, Politico ha ricordato che per questi motivi Trump potrebbe incontrare ostacoli nel tentativo di attrarre gli elettori suburbani che hanno precedentemente appoggiato Haley. Nonostante abbia richiesto l’unità del partito, Trump non ha esitato a criticare Haley per la sua decisione di rimanere in corsa. The Donald spera che i ranghi si serrino alle sue spalle.
Importante sottolineare ad esempio come di recente il senatore del South Dakota John Thune, secondo repubblicano della gerarchia conservatrice a Capitol Hill, ha esplicitato il suo sostegno a Trump nella corsa alla Casa Bianca. E anche il leader del gruppo del Gop al Senato, Mitch McConnell è dato da Politico in contatto con la campagna di Trump per un possibile endorsement.
La sorpresa di Samoa per i dem
In casa Biden i patemi sono legati a un tema simile: le defezioni interne. La nota di colore del Super Tuesday americano in casa democratica è l’exploit di Jason Palmer, uno sconosciuto uomo d’affari del Maryland, che ha strappato a Biden il minuscolo caucus delle Samoa americane.
Palmer ha vinto ottenendo 51 voti contro i 40 del presidente in carica, conducendo una campagna locale nell’arcipelago del Pacifico interamente via Zoom senza aver mai messo piede nel territorio dell’isola. I tre delegati persi per strada da Biden nelle Samoa non sono un problema.
Il Minnesota preoccupa Biden
Politico invita piuttosto a riflettere sul dato del Minnesota, dove non si è imposto mai un candidato repubblicano alla presidenza dai tempi di Richard Nixon nel 1972. Qui “Biden ha visto una battuta d’arresto meno sorprendente ma più minacciosa. L’opzione uncommitted“, ovvero la scelta di non preferire esplicitamente alcun candidato tra i concorrenti alle primarie, in Minnesota è salita all’ordine della cronaca ottenendo “il 19% dei voti”, principalmente sulla scia del contributo “della popolazione somala politicamente significativa dello Stato, concentrata attorno alle Twin Cities, Minneapolis e Saint Paul, che ha rimproverato la gestione di Biden della guerra tra Israele e Hamas”.
Insomma, per entrambi i candidati le trappole rischiano di provenire soprattutto dall’interno. Questo è indicativo dello stato di sviluppo della democrazia americana. Ormai trasformata in un arcipelago complesso in cui però le maree politiche difficilmente fanno spostare un frammento da un campo all’altro. I due partiti, sostanzialmente, si parlano addosso. E la delusione e la disaffezione non nascono dalle note positive di un avversario, ma dal distacco dal proprio campo. Il rischio, in quest’ottica, è l’incomunicabilità. E una delegittimazione stessa degli avversari. Tossine che già tra il 2020 e il 2021 si sono rivelate pericolose per il sistema a stelle e strisce. E che da qui a novembre rischiano di alimentarsi.